Indirizzo
Corso Matteotti 15,
Cremona, CR 26100
a cura dell’avvocato Lucio Lacerenza.
Il c.d. “correttivo appalti” (d.lgs. 56/2017) ha introdotto, nella parte del Codice relativa alla progettazione-programmazione degli appalti, il principio secondo il quale “Nei contratti di lavori e servizi la stazione appaltante, al fine di determinare l’importo posto a base di gara, individua nei documenti posti a base di gara i costi della manodopera sulla base di quanto previsto nel presente comma. I costi della sicurezza sono scorporati dal costo dell’importo assoggettato al ribasso” (art. 23 co. 16 del d.lgs. 50/2016).
La lettera della norma non pare felice. Secondo la disposizione, infatti, le stazioni appaltanti sono tenute ad individuare i costi della manodopera “nei documenti posti a base di gara”; formulazione estremamente generica, al punto da ingenerare il dubbio se i costi debbano essere determinati in sede di programmazione-progettazione degli appalti, attesa la collocazione sistematica della norma nella Parte I, Titolo III del Codice, oppure nel momento della successiva predisposizione del bando. Per inciso, l’individuazione di detti costi è finalizzata a “determinare l’importo posto a base di gara” per i “contratti di lavori e servizi” (rectius, appalti di lavori e servizi!).
A sommesso parere, la disposizione susciterà problematiche, sotto diversi profili.
Lato stazione appaltante: è da rilevare l’onere di dover prendere a parametro un contratto di riferimento ai fini della determinazione del costo del lavoro, anche nel caso in cui vi siano più contratti collettivi vigenti per la medesima categoria merceologica (settore pulizie, ad esempio).
Lato impresa: l’individuazione nella disciplina di gara del costo della manodopera si porrebbe in contrasto con i principi di libertà sindacale e d’impresa garantiti dagli articoli 39 e 41 della Costituzione, in quanto legittimerebbe – nell’ambito delle gare d’appalto – un solo contratto collettivo nazionale di lavoro per ciascuna categoria, in spregio alla possibilità di avere una pluralità di contratti, tutti egualmente validi, per un medesimo settore merceologico.
Senza considerare, infine, che una simile norma – ancorata com’è alla disciplina contrattual-lavoristica italiana, che non conosce pari nella UE – rischia di allontanare le imprese europee dalla partecipazione agli appalti indetti in Italia, a dispetto dei principi di apertura alla concorrenza comunitaria proclamati dalle direttive appalti del 2014.
Sempre lato impresa, l’imposizione del costo della manodopera ed i profili antisindacali della citata norma riverbereranno inevitabilmente i loro effetti al momento della predisposizione dell’offerta economica, laddove, secondo il decreto “correttivo appalti”, le imprese sono tenute ad “indicare i propri costi della manodopera” (art. 95, co. 10). Costi della manodopera che, per essere in certa misura “etero-imposti” dalla disciplina di gara, non sarebbero più “propri” dell’operatore, nel senso di essere frutto di una libera scelta condotta dall’azienda in uno con le forze sindacali in essa presenti.
Per analogia di materia, il cappio della norma sul costo del lavoro richiama alla memoria la sorte non felice della norma, praticamente impossibile da attuare, sullo scorporo del costo del lavoro nel previgente d.lgs. 163/2006; la quale venne introdotta nel vecchio Codice dal d.l. 70/2011, quindi abrogata dal d.l. 201/2011, salvo poi essere reintrodotta dal d.l. 69/2013.
In altri termini, sul costo del lavoro le novità sono sempre foriere di problematiche. Sarebbe opportuno un punto di certezza per non danneggiare i lavoratori, nè le imprese che operano correttamente sul mercato.
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