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Dopo la pubblicazione della Nadef, si è acceso un aspro dibattito sulle risorse da destinare alla sanità. Ma nessuno parla della vera questione: come riformare il sistema sanitario nazionale. È su questo tema che si dovrebbero chiedere risposte al governo.
Lo scontro sulle risorse
La pubblicazione della Nadef nei giorni scorsi ha aperto un dibattito sul tema delle risorse per la sanità, che appare largamente dettato da prese di posizione preventive rispetto alle scelte del governo.
Al netto dei rumors, infatti, tutte le riflessioni di questi giorni possono basarsi solo sul “tendenziale”, che rappresenta l’evoluzione prospettica del bilancio dello stato a politiche invariate. La Nadef fissa solo gli obiettivi programmatici senza entrare nel dettaglio delle politiche. E in termini proprio di obiettivi programmatici, la scelta del governo è quella di aumentare il deficit, una scelta che potrebbe anche implicare una maggiore spesa per la sanità. Su questo obiettivo, l’unico che riflette realmente le scelte dell’esecutivo e rappresenta la vera novità di questi giorni, il parallelo dibattito che si è sviluppato sul documento è curiosamente orientato a criticare l’esecutivo per eccesso di deficit, sottolineando come il governo avrebbe dovuto mantenere gli obiettivi del Documento di economia e finanza di primavera per consentire una più rapida riduzione del debito adesso che le condizioni sono ancora relativamente favorevoli.
La questione vera
Chiariti i termini della questione, cosa dice il tendenziale sulla spesa sanitaria? Conferma quello che si sapeva già da tempo: la spesa sanitaria, in percentuale del Pil, mostra un trend decrescente dopo il picco toccato durante la pandemia. La novità è che la riduzione si consuma anche in termini nominali: tra il 2023 e il 2024, la spesa è prevista in calo da 134,7 miliardi a 132,9, quasi 2 miliardi in meno. Una possibile spiegazione è il venir meno delle risorse destinate quest’anno a coprire il pay-back dovuto dai produttori di dispositivi medici. La spesa poi rimbalza, crescendo di quasi 4 miliardi nel 2025 e di altri 2 nel 2026.
Queste variazioni non tengono naturalmente conto dell’inflazione prevista dal governo: in termini reali, sull’orizzonte della previsione si arriva a una riduzione di circa 4 punti percentuali (che largamente conferma le variazioni rispetto al Pil). Il messaggio generale dei numeri della Nadef è che – senza interventi del governo per rifinanziare il fabbisogno sanitario nazionale – anche i prossimi saranno anni di magra per il Ssn, dopo l’abbondanza sperimentata durante l’emergenza pandemica.
Il Ssn può reggere a ulteriori anni di magra? La risposta delle opposizioni e di larga parte dei vari think-tank in qualche modo legati al mondo della sanità – che stanno rinfocolando il dibattito sulla Nadef – naturalmente è no.
Lasciamo da parte le cifre che servirebbero per “salvare il Ssn” – anche perché la scala è tale da suggerire che con l’attuale situazione del bilancio pubblico non ce lo possiamo permettere – e concentriamoci invece sulla domanda che da anni attende una risposta: come vogliamo riformare il Ssn? Perché la necessità di una riforma è stata la conclusione quasi unanime dopo la pandemia, viste le carenze evidenti sulla sanità territoriale. Ma su questo punto non c’è stato alcun dibattito pubblico e ci si limita ai caminetti degli addetti ai lavori, quando non ai seminari riservati.
Però è proprio su questo punto che bisognerebbe pungolare il governo, perché le risposte avute finora sono largamente insufficienti. Per esempio: il piano di costruire una sanità territoriale centrata sulle case e sugli ospedali della comunità è confermato? Quali figure professionali e con quali modalità contrattuali popoleranno queste strutture?
Per il momento, i segnali dall’esecutivo sono contrastanti. Quello che sappiamo è che – rispetto al piano originario previsto dal Pnrr – sono state tagliate 510 strutture per via dell’aumento dei costi di costruzione. Il taglio consentirà di mantenere comunque gli obiettivi in termini di tutela della salute della popolazione originariamente fissato dal Dm 77? E cosa si pensa di fare con il Dm 70, quello che ha proposto standard per un ospedale più sicuro e che prevedeva la riconversione dei piccoli presidi ma che è rimasto largamente inattuato dalle regioni? Solo qualche mese fa il ministero della Salute ha riunito intorno a un tavolo più o meno tutti gli stakeholder della sanità per discutere di come rivedere il Dm 70 e raccordarlo con il Dm 77: non è un po’ tardi visto che i progetti per case e ospedali della comunità avrebbero dovuto essere già definiti dalle regioni? E cosa è cambiato in termini di conoscenze per ritenere obsoleti gli standard del Dm 70?
Fare chiarezza su tali questioni è cruciale e molto più importante che non sapere quante saranno le risorse che il governo vorrà destinare al Ssn. Quello che insegna la storia – recente e meno –è che un po’ di soldi prima o poi si trovano, mentre ciò che finora è sempre mancato è la capacità di riformare davvero un sistema che si è dimostrato impermeabile al cambiamento. Per una ragione banale: le lobby della sanità hanno robuste rappresentanze in Parlamento e dintorni, capaci di scrivere riforme che cambiano tutto per non cambiare niente. (fonte: La voce info)