Indirizzo

Corso Matteotti 15,
Cremona, CR 26100

Come controllare la spesa sanitaria: investire nel public procurement. Analisi e proposte nella due giorni del MePAIE

a cura del dott. Marco Boni, direttore responsabile di News4market.

Nutrita partecipazione, qualità dei contenuti e profondità del dibattito hanno caratterizzato il MePAIE 2018

Nella prima sessione è stato analizzato lo “stato di salute” e le prospettive del SSN a partire dalle analisi contenute nel 3° Rapporto GIMBE sulla sostenibilità del Servizio Sanitario Nazionale.

Il Rapporto analizza le criticità che condizionano la sostenibilità della sanità pubblica, rivaluta la “prognosi” del SSN al 2025 e propone un vero e proprio “piano di salvataggio”. Inoltre, riporta i risultati delle azioni di monitoraggio dell’Osservatorio GIMBE: dal progressivo definanziamento 2010-2018 alla retrocessione del nostro servizio sanitario nelle classifiche internazionali, dalle criticità per l’attuazione dei nuovi livelli essenziali di assistenza agli sprechi e inefficienze. Infine, analizza i rischi di privatizzazione del SSN, conseguenti anche all’espansione incontrollata del “secondo pilastro”. 

Sono stati analizzati 194 indicatori riportando per 151 di essi la posizione in classifica del nostro SSN, il dato nazionale e la media OCSE, con l’obiettivo di condividere le criticità e valutare le azioni necessarie per allinearsi a standard internazionali.

Dalla revisione emergono due raccomandazioni chiave: la classifica dell’OMS del 2000, che collocava l’Italia al 2° posto dopo la Francia, ha un mero valore storico e non dovrebbe più essere citata; la classifica Bloomberg, che posizione l’Italia al 3° posto, valuta solo l’efficienza del SSN sovrastimandone di conseguenza la qualità.

Viene anche analizzata la spesa sanitaria 2016, ultimo anno per il quale sono disponibili tutti i consuntivi relativi alla spesa pubblica e privata. Secondo le stime effettuate dal Rapporto la spesa sanitaria 2016 ammonta a € 157,613 miliardi di cui: € 112,182 miliardi di spesa pubblica; € 45,431 miliardi di spesa privata di cui € 5,601 miliardi di spesa intermediata (€ 3,831 miliardi da fondi sanitari, € 0,593 miliardi da polizze individuali, € 1,177 miliardi da altri enti) e € 39,830 miliardi di spesa a carico delle famiglie (out-ofpocket). In altri termini, nel 2016 il 28,8% della spesa sanitaria è privata e di questa quasi l’88% è sostenuta direttamente dalle famiglie.

Riguardo alla spesa pubblica, l’assistenza sanitaria per cura e riabilitazione assorbe € 82,032 miliardi, i prodotti farmaceutici e altri apparecchi terapeutici € 31,106 miliardi, la long-term care € 15,067 miliardi, i servizi ausiliari € 12,342 miliardi, i servizi per la prevenzione delle malattie € 6,057 miliardi, mentre € 2,896 miliardi sono destinati a governance e amministrazione del SSN. Per valutare i trend 2000-2016 sono stati utilizzati i dati della Ragioneria Generale dello Stato che dimostrano la progressiva riduzione della spesa sanitaria: a fronte di un tasso di crescita medio annuo del 7,4% nel periodo 2001-2005, il tasso nel quinquennio 2006-2010 scende al 3,1%, quindi diventa negativo nel periodo 2011-2016 (-0,1%). Questa sensibile riduzione della spesa sanitaria ha permesso di ridurre il gap con i valori del finanziamento corrente del SSN, determinando negli ultimi tre anni un sostanziale allineamento e, di fatto, il pareggio di bilancio. Tuttavia, il contenimento complessivo della spesa sanitaria nel periodo 2000-2016 non riflette trend omogenei tra i differenti aggregati di spesa, determinando una significativa ricomposizione della loro incidenza rispetto alla spesa sanitaria totale: da segnalare che per i redditi da lavoro dipendente l’incidenza è scesa dal 39,8% del 2000 al 31% del 2016. Considerato che le stime sulla spesa sanitaria privata (che include quella sostenuta dalle famiglie e quella intermediata da “terzi paganti”) effettuate da diverse Istituzioni e organizzazioni riportano rilevanti differenze, il Rapporto analizza le discordanze e ove possibile ne identifica le motivazioni. Per stimare la spesa out-of-pocket si è fatto riferimento al dato ISTAT-SHA integrato con alcune voci di spesa escluse, per un totale di € 39,8 miliardi, comprensivi di € 2,9 miliardi di ticket. Tuttavia, a fronte dell’entità della spesa delle famiglie, di fatto “alleggerita” da € 3,4 miliardi di rimborsi IRPEF, il Rapporto dimostra che almeno il 40% di tale spesa non compensa le minori tutele conseguenti al ridotto finanziamento pubblico, ma consegue a fenomeni di consumismo sanitario o a scelte individuali. Inoltre, nel medio periodo non si registra alcun allarme sull’incremento della spesa delle famiglie, che nel periodo 2009-2016 ha subìto lo stesso incremento percentuale rispetto al periodo 2000- 2008 (18% circa). Ancora più complessa l’analisi della spesa privata intermediata per variabili e criticità che condizionano la tracciabilità dei flussi economici. Seppure con i limiti relativi ad affidabilità di fonti e dati e alla possibile sovrapposizione di alcune cifre, per l’anno 2016 si stima una spesa intermediata di € 5,6 miliardi (12,3% della spesa privata), sostenuta da varie tipologie di “terzi paganti: € 3.830,8 milioni da fondi sanitari e polizze collettive, € 593 milioni da polizze assicurative individuali, € 576 milioni da istituzioni senza scopo di lucro e € 601 milioni da imprese.

Sono state esaminate anche le macro-determinanti della crisi di sostenibilità del SSN: definanziamento pubblico, sostenibilità ed esigibilità dei nuovi LEA, sprechi e inefficienze ed espansione incontrollata del “secondo pilastro”.

Definanziamento pubblico.

Sintetizzando l’enorme quantità di numeri tra finanziamenti programmati dai Documenti di Economia e Finanza (DEF), fondi assegnati dalle Leggi di Bilancio, tagli e contributi alla finanza pubblica a carico delle Regioni, emergono poche inquietanti certezze sulle risorse destinate al SSN. Nel periodo 2013-2018 il finanziamento nominale è aumentato di quasi € 7 miliardi, dai € 107,01 miliardi del 2013 ai € 114 miliardi del 2018, di cui sono “sopravvissuti” nei fatti solo € 5,968 miliardi; nel periodo 2015-2018 l’attuazione degli obiettivi di finanza pubblica ha determinato, rispetto ai livelli programmati, una riduzione cumulativa del finanziamento del SSN di € 12,11 miliardi; il DEF 2018, a fronte di una prevista crescita annua del PIL nominale del 3% nel triennio 2018-2020, riduce progressivamente il rapporto spesa sanitaria/PIL dal 6,6% del 2018 al 6,4% del 2019, al 6,3% nel 2020 e 2021. A seguito del costante definanziamento, le analisi effettuate sul database OECD Health Statistics dimostrano che la spesa sanitaria in Italia continua inesorabilmente a perdere terreno con progressivo avvicinamento ai livelli di spesa dei paesi dell’Europa Orientale. La regressione riguarda anzitutto la percentuale del PIL destinato alla spesa sanitaria totale, che nel 2016 è di poco inferiore alla media OCSE (8,9% vs 9%) e in Europa vede l’Italia fanalino di coda insieme al Portogallo tra i paesi dell’Europa occidentale. L’arretramento è attestato tuttavia soprattutto per la spesa pro-capite totale, inferiore alla media OCSE ($ 3.391 vs $ 3.978), che colloca l’Italia in prima posizione tra i paesi più poveri dell’Europa: Spagna, Slovenia, Portogallo, Repubblica Ceca, Grecia, Slovacchia, Ungheria, Estonia, Polonia e Lettonia. Sostenibilità ed esigibilità dei nuovi LEA. A 14 mesi dal grande traguardo politico raggiunto con la pubblicazione del decreto sui “nuovi LEA”, il Rapporto GIMBE analizza le criticità metodologiche per definire e aggiornare gli elenchi delle prestazioni, quelle relative al monitoraggio dei LEA e quelle che condizionano l’erogazione e l’esigibilità dei nuovi LEA in maniera uniforme su tutto il territorio nazionale: dai recepimenti regionali dei nuovi LEA, al ritardo nella pubblicazione dei nomenclatori tariffari, dall’individuazione di limiti e modalità di erogazione delle prestazioni, agli aggiornamenti degli elenchi delle prestazioni. Il Rapporto sottolinea inoltre l’inderogabile necessità di rivalutare complessivamente tutte le prestazioni inserite nei LEA, facendo esplicito riferimento a un metodo rigoroso basato sulle evidenze e sul value al fine di effettuare un “consistente sfoltimento”, mettendo fine all’inaccettabile paradosso per cui in Italia convivono il “paniere LEA” più ricco (almeno sulla carta) ed un finanziamento pubblico tra i più bassi d’Europa

Sprechi e inefficienze.

Per l’anno 2017 sul consuntivo di € 113,599 miliardi di spesa sanitaria pubblica la stima di sprechi e inefficienze è di € 21,59 miliardi, con un margine di variabilità (±20%) e un range variabile tra € 17,27 e € 25,91 miliardi. L’impatto complessivo degli sprechi è stato ridotto di 1 punto percentuale (dal 20% delle stime OCSE al 19%) con un recupero stimato di oltre € 1,3 miliardi nel 2017. Per ciascuna delle categorie di sprechi viene riportata una “carta di identità” che include definizione, determinanti, tassonomia, esempi, normative e iniziative nazionali ed internazionali, oltre che le stime delle risorse erose dagli sprechi: sovra-utilizzo di servizi e prestazioni sanitarie inefficaci o inappropriate (€ 6,48 mld), frodi e abusi (€ 4,75 mld), acquisti a costi eccessivi (€ 2,16 mld), sotto-utilizzo di servizi e prestazioni efficaci e appropriate (€ 3,24 mld), complessità amministrative (€ 2,37 mld), inadeguato coordinamento dell’assistenza (€ 2,59 mld).

Espansione del secondo pilastro.

Le restrizioni finanziarie imposte alla sanità pubblica hanno indebolito il sistema di offerta di servizi e prestazioni sanitarie, aggravato le difficoltà di accesso alle cure e ampliato le diseguaglianze. In questo contesto, l’aumento della spesa out-ofpocket e la rinuncia a prestazioni sanitarie si sono accompagnati alla crescita di forme alternative di copertura sanitaria. Di conseguenza, l’idea di affidarsi al “secondo pilastro” per garantire la sostenibilità del SSN si è progressivamente affermata per l’interazione di alcuni fattori: dalla complessità della terminologia alla frammentazione della normativa, dalla scarsa trasparenza alla carenza di sistemi di controllo. In questo contesto si è progressivamente fatta largo una raffinata strategia di marketing basata su un assioma correlato a criticità solo in apparenza correlate (riduzione del finanziamento pubblico, aumento della spesa out-of-pocket, difficoltà di accesso ai servizi sanitari e rinuncia alle cure) alimentate dai risultati di studi discutibili finanziati proprio da compagnie assicurative. Il Rapporto analizza in dettaglio il complesso ecosistema dei “terzi paganti” in sanità, le tipologie di coperture offerte, l’impatto analitico di fondi sanitari e polizze assicurative sulla spesa sanitaria e tutti i potenziali “effetti collaterali” del secondo pilastro, troppo spesso sottovalutati sull’onda di un entusiasmo collettivo: dai rischi per la sostenibilità a quelli di privatizzazione, dall’aumento delle diseguaglianze all’incremento della spesa sanitaria, dal sovra-utilizzo di prestazioni sanitarie alla frammentazione dei percorsi assistenziali.

E’ stata effettuata la rivalutazione delle prognosi del SSN al 2025, effettuata ispirandosi alla teoria dei “cunei di stabilizzazione” che risponde alla necessità di un piano d’intervento multifattoriale per garantire la sostenibilità del SSN. Accanto alla rivalutazione della stima del fabbisogno al 2025, sono state aggiornate tutte le stime relative al finanziamento pubblico (al ribasso), alla spesa privata (al rialzo) e al disinvestimento da sprechi e inefficienze. Il fabbisogno al 2025 è stato stimato, in maniera estremamente conservativa, in € 220 miliardi, tenendo conto di vari fattori: entità del sotto-finanziamento del SSN, benchmark con i paesi dell’Europa occidentale, sottostima dell’impatto economico dei nuovi LEA, evidenza di inadempimenti LEA in varie Regioni, inderogabile necessità di rilancio delle politiche per il personale sanitario, immissione sul mercato di costosissime innovazioni farmacologiche, necessità di ammodernamento tecnologico, invecchiamento della popolazione, rinuncia a prestazioni sanitarie (dati ISTAT). Tale stima esclude espressamente le risorse da destinare al piano straordinario di investimenti per l’edilizia sanitaria e i bisogni socio-sanitari che ammonterebbero ad oltre € 17 miliardi. L’incremento della spesa sanitaria totale nel periodo 2017-2025 è stato stimato in € 27 miliardi (€ 9 miliardi di spesa pubblica e € 18 miliardi di spesa privata), che permetterebbero di raggiungere nel 2025 una cifra di poco superiore ai € 184 miliardi, ben lontana dal fabbisogno stimato. Il potenziale recupero di risorse dal disinvestimento da sprechi e inefficienze nel periodo 2017-2025 è stato stimato in oltre € 70 miliardi, recuperabili non solo tramite azioni puntuali di spending review, ma attraverso interventi strutturali e organizzativi . Nonostante la stima di € 220 miliardi sia conservativa e il disinvestimento di € 70 miliardi estremamente impegnativo, per raggiungere il fabbisogno stimato per il 2025 mancherebbero comunque ancora € 20,5 miliardi, una cifra di un’entità tale da richiedere scelte politiche ben precise. In altre parole, le valutazioni del presente Rapporto dimostrano che il disinvestimento da sprechi e inefficienze è condicio sine qua non per salvare il SSN e che al tempo stesso la soluzione non è rappresentata sicuramente dal “secondo pilastro”: di conseguenza, in assenza di un consistente rilancio del finanziamento pubblico, sarà impossibile mantenere un servizio sanitario pubblico, equo e universalistico. Visto che le azioni del prossimo Esecutivo saranno cruciali per il futuro del SSN, il Paese si trova davanti ad un bivio: se si intende realmente preservare la più grande conquista dei cittadini italiani, come da ogni parte dichiarato a parole, accanto a tutti gli interventi necessari per aumentare il value for money del denaro investito in sanità, è indispensabile invertire la rotta sul finanziamento pubblico. In alternativa, occorrerà governare adeguatamente la transizione a un sistema misto, al fine di evitare una lenta involuzione del SSN che finirebbe per creare una sanità a doppio binario, sgretolando i princìpi di universalismo ed equità che ne costituiscono il DNA.

Relativamente al tema “sprechi e inefficienze” , è stata approfondita la casistica degli “acquisti a costi eccessivi”, richiamando il recente studio ANAC sull’acquisto di dispositivi in ambito diabetologico.

E’ stata richiamata anche la rilevazione annuale IStAT-MEF sui “risparmi Consip” rispetto a corrispondenti prezzi ottenuti in procedure autonome espletate dalle pubbliche amministrazioni. E qui – osserviamo noi – non è chiara la natura e la consistenza del campione di confronto, dato che per legge le p.a. che non usufruiscono delle convenzioni Consip devono acquistare a prezzi non superiori.

In generale, la tematica sugli spreche sottende a quella dei “prezzi di riferimento” di cui si riscontrerebbe un miglioramento relativamente alla qualità del dato osservato.

Per rimarcare che non è tanto la corruzione, quanto l’”incompetenza” a dequalificare il public procurement nel nostro Paese, è stato richiamato (ancora una volta) lo studio a rilievo internazionale sulle pratiche di acquisto delle p.a. realizzato alcuni anni addietro da ricercatori dell’Università Tor Verga di Roma.

La problematica dell’”incompetenza” rinvia alla tematica della qualificazione delle stazioni appaltanti, trattato nella seconda sessione del MePAIE 2018 . Sullo schema di DPCM che regola l’avvio – quando sarà – del processo di accreditamento è stata data una valutazione complessivamente non negativa . Il fatto è che l’istituto dell’accreditamento delle stazioni appaltanti (con implicito loro sfoltimento) è uno dei punti qualificanti di natura sostanziale e non formale non attuati del nuovo Codice degli appalti (assieme a quello del rating delle imprese) e ciò – per inciso – può essere dovuto anche a resistenze nell’ambito del sistema.

A proposito di Codice, sono stati ripresi i vari “annunci” a mezzo stampa su varie ipotesi di modifica del Codice – imputato soprattutto di “rallentare” le opere pubbliche – da parte del nuovo Governo, tenendo conto della consultazione pubblica effettuata.

Nella terza sessione, focalizzata sul farmaco, è stato presentato lo studio Improving healthcare delivery in hospitals by optimized utilization of medicines commissionato dall’associazione europea di settore, Medicines for Europe, alla società di consulenza internazionale Kpmg.

Sotto la lente degli esperti il problema delle ristrettezze di budget che affligge indiscriminatamente i sistemi sanitari europei e un paio di dati altrettanto condivisi: in tutti i Paesi è l’ospedale ad assorbire la quota più elevata della spesa sanitaria e in tutti i Paesi esistono spazi concreti di ottimizzazione dell’uso dei farmaci in ambito ospedaliero.
Realizzata sulla base degli indicatori individuati dalle banche dati europee dell’European Health Consumer Index (EHC) e dell’OCSE, la ricerca mette a fuoco modelli di finanziamento, livelli di performance e meccanismi per l’approvvigionamento dei medicinali in ambito ospedaliero in 8 Paesi della Comunità.

I risultati dello studio

La qualità delle prestazioni ospedaliere è stata valutata utilizzando 8 dei 46 indicatori adottati dall’EHC e 13 dei 76 adottati dall’OCSE per valutare outcome e accessibilità delle cure ospedaliere: ad assicurarsi il punteggio più alto il Belgio (27 punti su 42 rispetto agli indicatori disponibili – quality score), seguito da Francia (25) e Portogallo (24), a fronte di un punteggio medio totale di qualità delle cure ospedaliere negli otto Paesi esaminati pari a 21.
L’analisi sui costi – realizzata sui dati di spesa OCSE 2015 – vede invece prima in classifica la Francia con una incidenza dei costi ospedalieri pari al 4,5% del PIL, seguita da Regno Unito e Italia a pari merito (4,1%), a fronte di una incidenza media negli 8 Paesi in esame del 3,7%. Sotto media (3,3%) la Germania, mentre è in coda alla classifica la Polonia, che registra una incidenza dei costi ospedalieri sul PIL pari al 2,3% e riscuote anche punteggi relativamente bassi sugli indicatori di qualità rispetto agli altri sette Paesi in esame.
Tenendo conto sia della qualità che dei costi, è il sistema ospedaliero belga ad ottenere la valutazione migliore – qualità sufficientemente elevata con costi ragionevoli – seguito da Portogallo e Germania. 
Performance decisamente più scadente per il Regno Unito, afflitto da costi relativamente elevati del sistema ospedaliero (il secondo più alto degli otto Paesi studiati) e un punteggio decisamente basso, legato in particolare alla scarsa accessibilità delle cure ospedaliere.

Le barriere

“La qualità dell’ospedale è solo parzialmente misurabile con gli indicatori disponibili pertanto, i risultati di questa analisi comparativa dovrebbero essere considerati come un’indicazione delle prestazioni ospedaliere relative, piuttosto che una misura esatta delle prestazioni degli otto sistemi ospedalieri”, avvertono a questo punto gli esperti KPMG (la scelta degli indicatori influenza la performance dei singoli Paesi). Che invece non hanno difficoltà ad analizzare – Paese per Paese – le barriere al miglior accesso di generici e biosimilari all’interno delle strutture. Eccole in sintesi: Belgio. La bassa penetrazione dei generici nel mercato ospedaliero belga viene attribuita all’assenza di scelte politica sanitaria a lungo termine che ne incentivino l’utilizzo, ai meccanismi di gara che vedono la competizione diretta sul prezzo con gli originatori off-patent e la presenza di criteri di aggiudicazione aggiuntivi, non correlati al prezzo, che finiscono con il favorire gli originator (es. distanza dell’impianto di produzione, velocità di consegna, confezioni monodose) e all’esiguità dei volumi vista la possibilità di indire gare per singolo ospedale. Trend che – segnala lo studio – potrebbero portare all’erosione dei prezzi dei generici e al rischio di carenze di farmaci determinate dalla scelta dei produttori non mantenere scorte di emergenza disponibili. Per i biosimilari invece la barriera è dovuta fondamentalmente dalla scarsa conoscenza dei prodotti da parte di medici e farmacisti e dall’assenza di incentivi al loro utilizzo. Francia. Tra gli ostacoli principali all’utilizzo dei generici figurano la scarsità delle categorie terapeutiche per le quali è prevista la sostituibilità e il tempo medio d’attesa per l’ammissione al rimborso (10 mesi; tra i più lunghi nell’UE). Per i biosimilari invece gli ostacoli principali sono rappresentati dall’assenza di linee guida prescrittive; dall’assenza di clausole di garanzia per la riapertura automatica della gara al primo ingresso sul mercato del biosimilare; dalle complessive lungaggini del meccanismo degli appalti che rende poco appetibile il mercato ospedaliero per i produttori di biosimilari.

Germania. Paradossalmente la principale barriera è costituita dal sistema di acquisto basato unicamente sul prezzo più basso, che produce una pressione costante sulla variabile prezzo, col conseguente rischio di riduzione dei fornitori e dunque della concorrenza. Sotto accusa anche le sanzioni per mancata fornitura (considerate eccessive perché basate sul prezzo di listino) e – per i pazienti non in ricovero – il meccanismo di rimborso strutture sanitarie basato su sconti standard sul prezzo di listino, che disincentiva l’uso dei biosimilari da parte degli ospedali.

Italia. Le differenze di penetrazione dei generici nei mercati regionali – causate soprattutto da fattori culturali – sono decisamente meno evidenti in ambito ospedaliero. L’ostacolo principale in questo ambito rappresentato dalle procedure di gara condizionate da un meccanismo di appalto troppo lungo, burocratico e denso di incertezze (es. assenza di quantitativi minimi d’ordine). Altro fattore disincentivante il criterio di aggiudicazione al massimo ribasso, che ha determinato negli anni una costante erosione dei prezzi e una sempre minore partecipazione alle gare da parte delle imprese con aumento dei lotti deserti. Un potente disincentivo è rappresentato infine dall’imposizione a partire dal 2012 del pay back ospedaliero anche ai farmaci generici e biosimilari acquistati in gara.

Polonia. La riduzione obbligatoria dei listini e la scontistica elevata imposta a generici e biosimilari riduce potenzialmente l’interesse dei produttori farmaceutici ad accedere al mercato ospedaliero polacco, anch’esso caratterizzato da sistemi di gara troppo farraginosi. Per quanto riguarda in particolare i biosimilari si registra la presenza di un numero limitato di aziende interessate ad operare nel Paese, probabilmente per l’assenza di linee guida per il passaggio al trattamento con i biosimilari (ne esiste una sola per l’infliximab) e per la limitatezza dei prontuari ospedalieri che generalmente garantiscono la disponibilità di un solo prodotto per classe terapeutica.

Portogallo. Tre e pesantissime le barriere che condizionano il mercato della medicina generica e biosimilare portoghese. In primis la riduzione automatica del prezzo del generico o del biosimilare al diminuire del prezzo dell’originatore. Poi la procedura di aggiudicazione in due fasi entrambe incentrate sul prezzo: la prima a livello nazionale e la seconda a livello ospedaliero, in genere aggiudicate entrambe al prezzo più basso. Infine l’accordo sul pay back introdotto nel 2016 che grava anche su generici e biosimilari.

Spagna. La prima barriera è rappresentata dal fatto che non esistono differenziazioni di prezzo di listino tra originatore e generici o biosimilari: entrambi figurano nelle liste di riferimento per ciascuna categoria terapeutica. Un ostacolo in particolare per i biosimilari è rappresentato dal fatto che il processo di determinazione di prezzi e rimborsi è simile a quello previsto per i farmaci generici, comprese le riduzioni di prezzo automatiche all’entrata nel mercato. Inoltre non esistono quote di consumo prefissate ed è vietata la prescrizione dei biologici per principio attivo: i farmacisti ospedalieri devono dispensare il marchio commerciale come prescritto dal medico.

Regno Unito. I farmacisti – sia in ospedale che in farmacia – non sono autorizzati a sostituire un originatore con un generico senza consultare e ottenere l’approvazione del medico. Per quanto riguarda le gare, il principale (e spesso unico) criterio di aggiudicazione nelle gare è il prezzo: se l’azienda non riesce a far fronte alla fornitura sarà tenuta a coprire la spesa in eccesso che ne deriva. Infine le gare non garantiscono un volume minimo di fornitura, consentendo basse economie di scala. Il rischio conseguente è quello della carenza di medicinali.
Per quanto riguarda invece i biosimilari a pesare è in generale l’assenza di linee guida specifiche per il loro utilizzo; l’obbligo di prescrizione per marca; la mancata riapertura delle gare al primo ingresso del biosimilare sul mercato.

Le raccomandazioni

È in base a questo lungo excursus che i ricercatori KPMG hanno individuato i dieci ingredienti chiave per un mercato farmaceutico ospedaliero che ottimizzi l’utilizzo di generici e biosimilari, puntando fondamentalmente ad una concorrenza sostenibile nell’ambito del sistema degli appalti.

1. Passare dall’aggiudicazione al prezzo minimo al criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, che tiene conto di altri elementi qualitativi (es. disponibilità di più specialità medicinali; disponibilità di dispositivi per la somministrazione; affidabilità dei fornitori), laddove sia possibile e ragionevole, consentendo la competizione su più parametri.
2. Definire una quantità minima e una quantità massima per lotto. Misura che consente ai produttori di farmaci di valutare con precisione l’effetto delle economie di scala e di valutare con maggiore precisione l’impatto di eventuali sanzioni in caso di incapacità di fornire i medicinali.
3. Favorire le gare multi-aggiudicatari. Strategia suggerita per evitare il rischio di una riduzione della competizione e dei fenomeni di carenza di medicinali, pur garantendo, nella sua implementazione, il contrasto a fenomeni anti concorrenziali.
4. Riapertura immediata della gara dopo l’ingresso del primo farmaco multisource.
5. Snellimento delle procedure. Prevedere solo la presentazione di informazioni veramente essenziali e la completa digitalizzazione della procedura riduce lo sforzo richiesto, e quindi anche i costi irrecuperabili sostenuti dai produttori per la partecipazione alla gara.
6. Diffondere informazioni scientifiche indipendenti sull’efficacia, la qualità e la sicurezza indirizzate a ai medici e ai farmacisti ospedalieri, spesso attori chiave dell’approvvigionamento e diffondere informazioni sull’efficienza dei costi tra i responsabili delle organizzazioni che organizzano gare d’appalto per le forniture.
7. Attuare accordi per obiettivi e prevedere anche, dove necessario, l’utilizzo di quote per l’uso dei farmaci biosimilari. Diversamente dagli incentivi finanziari, gli accordi sugli obiettivi non creano una pressione unicamente sul fattore prezzo e risparmio, con conseguenti dinamiche di mercato più sostenibili e maggiore concorrenza nel mercato dei biosimilari nel lungo periodo. Ma hanno anche il vantaggio di dare ai clinici una maggiore libertà terapeutica, aumentando l’accettazione dei prodotti.
8. Elaborare linee guida nazionali chiare sull’utilizzo dei biosimilari e sullo switch per migliorare l’accesso e l’erogazione di questa risorsa terapeutica negli ospedali grazie all’utilizzo ottimizzato dei farmaci biosimilari anche per i pazienti già sottoposti a trattamento con il biologico originatore.
9. Implementare metodi di condivisione dei benefici finanziari derivanti dal maggiore utilizzo di generici e biosimilari.

Le specifiche per l’Italia

10. Queste infine le indicazioni ritenute cruciali per il mercato ospedaliero Italiano:

• privilegiare il meccanismo dell’offerta economicamente più vantaggiosa per stimolare una concorrenza ormai carente in ambito ospedaliero;
• definire una quantità minima e massima per lotto;
• superare il meccanismo del pay back, per andare verso sistemi più idonei, ma ogni caso responsabilizzanti per gli attori del sistema;
• snellire le procedure di gara, alleggerendo i costi irrecuperabili a carico dei produttori di farmaci;
• prevedere la riapertura immediata della gara al primo ingresso sul mercato del generico o biosimilare;
• ottimizzare il prezzo base d’asta.

Tutte queste misure avrebbero la capacità di ridurre il numero dei lotti deserti promuovendo una concorrenza sostenibile mediante il bilanciamento rischio e ricompensa.

Il mercato nazionale

Secondo i dati elaborati dall’Ufficio studi Assogenerici su dati IQVIA 2017 il mercato farmaceutico ospedaliero complessivo (tutte le classi, esclusa la distribuzione diretta, in patent e off patent) è rappresentato da 983 milioni di UMF (unità minime frazionabili, ovvero singola fiala, compressa, etc), per un valore pari a 6,7 miliardi di euro ai prezzi ex-factory (6 miliardi nel 2016), ovvero il prezzo massimo di cessione al SSN non ancora sottoposto allo sconto medio praticato in gara. Tenendo conto del “prezzo medio ponderato” il reale valore del mercato ospedaliero si attesta a complessivi 4,7 miliardi.
Le aziende produttrici di generici equivalenti coprono circa il 33,3% del fabbisogno (era 32% nel 2016) per circa 330 milioni di UMF l’anno.

La presenza degli equivalenti è particolarmente incisiva nelle seguenti quattro classi farmaceutiche individuate secondo la classificazione ATC (Anatomica Terapeutica Chimica):
• Classe K1 (soluzioni infusionali) di cui le aziende di Assogenerici garantiscono il 99% a volumi (quota invariata nel 2017 vs 2016);
• Classe J1 (antibiotici), generici per il 72% a volumi (69% nel 2016);
• Classe N2 (analgesici) dove i generici rappresentano il 42% dei volumi (41% nel 2016);
• Classe L1 (oncologici), generici per il 33% dei volumi (35% nel 2016).

Ha chiuso il MePAIE una riflessione sul ruolo attuale e prospettico del buyer pubblico.

Nella quarta sessione sono stati presentati i risultati di un sondaggio FARE sul rapporto tra aziende sanitarie e soggetti aggregatori, secondo la percezione degli operatori che operano nelle due tipologie di struttura. Le visioni e opinioni sui reciproci comportamenti nei processi di acquisto non sempre collimano, a causa verosimilmente anche di una insufficiente integrazione operativa. C’è quindi da costruire un rapporto forse più fluente e strutturato, basato sullo scambio professionale.

Il questionario Net4Market-FARE sulla percezione del ruolo attuale e prospettico de buyer pubblico, somministrato ad appartenenti alla categoria, ha consentito di tracciare un identikit del provveditore nell’attuale contesto istituzionale e operativo.

Gli intervistati sostengono che il provveditore dovrebbe possedere un mix di competenze, in primis di carattere giuridico amministrativo (in dipendenza delle funzioni di RUP e di norme complesse sempre in divenire da applicare), ma anche, appena un gradino sotto per importanza, di natura economica e di marketing di acquisto. Al quesito se il buyer debba essere anche uno “specialista di prodotto”, la risposta è che non può e non deve avere una conoscenza merceologica approfondita in tutti i molteplici ambiti di interesse, ma deve possedere una conoscenza di base che gli consenta di valutare i giusti inquadramenti delle problematiche tecniche. Al provveditore compete svolgere ordinariamente le funzioni di RUP e si sottolinea con forza che a lui dovrebbe competere definire il “disegno” della gara. La “rotazione” nelle funzioni di buyer è tanto inefficace ai fini anti-corruttivi, quanto dannosa per la qualità dei processi di acquisto. Vengono rilevate significative criticità nel “servizio” forniti dai soggetti aggregatori relativamente alla corretta interpretazione, tempistica di risposta e completezza di soddisfacimento dei bisogni espressi dalle aziende sanitarie. Se è vero che i provveditori aziendali rischiano un processo di marginalizzazione , è altrettanto vero che, per la complessità e specificità dei bisogni sanitari, che una quota di acquisti di beni e servizi è comunque destinata a rimanere di livello aziendale.

Scontata la critica alla scarsa offerta istituzionale di formazione professionale, viene auspicato un sistema formativo per il comparto pubblico sul modello francese e l’estensione alle attività amministrative della formazione continua modello ECM.

Questo quadro rappresentato dagli intervistati porta a delineare un sistema di acquisti pubblici che – realizzata la qualificazione istituzionale e “scrematura” delle stazioni appaltanti – dovrebbe stabilizzarsi su più livelli, in una logica di sistema. La conseguenza – anche nelle risposte degli intervistati – è che non ha più senso contrapporre i provveditori “aziendali” agli operatori dei “soggetti aggregatori”, in quanto espressioni pur differenziate di una stessa categoria professionale. La quale deve interrogarsi ed essere propositiva sul rapporto con gli altri “attori” del sistema, per l’ottimizzazione dei processi di acquisto e gestione.

In questo contesto, un riconoscimento di alto livello istituzionale sull’importanza e valenza strategica per l’economia europea delle funzioni di public procurement – fuori quindi da ogni autoreferenzialità – è rappresentato dalla RACCOMANDAZIONE (UE) 2017/1805 DELLA COMMISSIONE relativa alla professionalizzazione degli appalti pubblici. Vi si afferma tra l’altro che gli Stati membri dovrebbero individuare e definire il quadro di riferimento per le abilità e le competenze su cui ciascun professionista degli appalti pubblici dovrebbe essere formato e di cui dovrebbe disporre (…….)

Le riflessioni svolte nell’ambito del IX MePAIE rimarcano, in sintonia con il pensiero delle istituzioni comunitarie , l’esigenza della (ri)progettazione delle funzioni del provveditore. Come annunciato in chiusura del convegno, la job description del buyer pubblico costituirà il tema centrale nell’agenda del prossimo Congresso nazionale della FARE. Appuntamento a Firenze a ottobre 2019.