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La pronuncia del Consiglio di Stato sulla proposizione di motivi aggiunti in appello nel rito appalti

Il Consiglio di Stato, Sez. III, con la sentenza n. 1633 del 7 aprile 2017, è entrato nel merito dell’ammissibilità, nell’ambito del rito appalti, della proposizione di motivi aggiunti in grado d’appello. Si specifica innanzitutto che la possibilità di introdurre motivi aggiunti di ricorso direttamente in grado di appello è ammessa, invero, solo entro limiti ben precisi (v., in particolare, Cons. St., sez. V, 27 agosto 2014, n. 4366).

Prosegue la sentenza: anche prima dell’avvento del codice del processo amministrativo, infatti, l’interpretazione giurisprudenziale della disciplina processuale ammetteva la possibilità di dedurre motivi aggiunti anche direttamente in appello allorché si trattasse, però, di far valere dei vizi degli stessi provvedimenti impugnati non noti all’epoca del primo grado, in quanto emersi solo a seguito della conoscenza di nuovi documenti, mentre escludeva una simile possibilità allorché i motivi aggiunti da introdurre in appello dovessero investire atti sopravvenuti in corso di giudizio, non venendo ritenuta applicabile in sede di appello – ma solo nel giudizio di primo grado – la disposizione dell’art. 1, comma 1, della l. 21 luglio 2000, n. 205, secondo la quale tutti i provvedimenti adottati in pendenza del giudizio e connessi all’oggetto del ricorso andavano impugnati mediante la proposizione di motivi aggiunti (v., ex plurimis, Cons. St., sez. VI, 25 luglio 2006, n. 4648; Cons. St., sez. V, 28 settembre 2007, n. 5024; Cons. St., sez. VI, 4 aprile 2008 n. 1442).

Questo orientamento giurisprudenziale è stato quindi codificato dall’art. 104, comma 3, c.p.a., sopra ricordato.

La previsione codicistica vigente ammette, pertanto, i motivi aggiunti in grado d’appello al solo fine di dedurre ulteriori vizi degli atti già censurati in primo grado, evenienza nella quale non ci si trova tanto in presenza di una domanda nuova quanto di un’articolazione della domanda già proposta al T.A.R., e non anche nella diversa ipotesi in cui con essi si intenda impugnare nuovi atti sopravvenuti alla sentenza di prime cure (cfr., inter multas, Cons. St., sez. IV, 16 giugno 2011, n. 3662; Cons. St., sez. V, 13 maggio 2011, n. 2892; Cons. St., sez. VI, 12 aprile 2011, n. 2257, ma v. anche, ex recentioribus, Cons. St., sez. V, 19 novembre 2012, n. 5844; Cons. St., sez. IV, 29 agosto 2013, n. 4315; Cons. St., sez. IV, 18 aprile 2014, n. 1987; Cons. St., sez. V, 27 agosto 2014, n. 4366).

Questa fondamentale regola vale anche per le impugnative degli atti delle procedure di affidamento contratti pubblici, ove l’art. 120, comma 7, c.p.a. – nella formulazione anteriore al d. lgs. n. 50 del 2016 – prevede che «i nuovi atti attinenti la medesima procedura di gara devono essere impugnati con ricorso per motivi aggiunti» solo con riferimento al primo grado di giudizio, ma non già per il grado di appello, per il cui svolgimento l’art. 120, comma 11, c.p.a. non richiama la regola del comma 7 – ma solo quelle dei commi 3, 6, 8 e 10 e, dopo la novella del 2016, anche dei commi 2-bis, 6-bis, 8-bis e 9 – per l’ovvia ragione che, in virtù del generale principio di cui all’art. 104, comma 3, c.p.a., non è possibile impugnare, con motivi aggiunti, un atto sopravvenuto alla sentenza già gravata né, a fortiori, è possibile impugnare la sentenza di prime cure che si sia pronunciata sulla legittimità dell’atto di gara sopravvenuto alla prima sentenza.

Documenti correlati: Consiglio di Stato, sez. III, sentenza n. 1633 del 7 aprile 2017