Indirizzo
Corso Matteotti 15,
Cremona, CR 26100
a cura del dott. Marco Boni, direttore responsabile di News4market.
Al 2015, la spesa sanitaria totale in Italia corrisponde al 9% del PIL contro il 9,9% della Gran Bretagna, l’11,1% della Francia, l’11,2% della Germania, il 16,9% degli Stati Uniti (2015). In Italia nel 2016, la spesa SSN “pubblica” copre circa il 75% della spesa totale, la spesa privata diretta il 23%, la spesa intermediata il restante 2%. Tra 2010 e 2016, la spesa SSN è cresciuta in media dello 0,7% annuo in termini nominali, tasso inferiore all’inflazione media annua pari a 1,1%. Nel 2016 la spesa SSN è aumentata dell’1,1% rispetto al 2015, attestandosi a 115,8 miliardi di euro. Il SSN cala dal 24% della spesa totale per il Welfare nel 2010 al 21,9% nel 2016.
La Corte dei Conti, nel Referto annuale relativo al 2016, evidenzia le linee di tendenza della spesa per la salute.
LINEE DI TENDENZA
Emergono significative linee di tendenza che vengono di seguito sintetizzate.
• I dati di contabilità nazionale dei recenti anni e le previsioni per i prossimi (sia pur con tutte le cautele che si possono esprimere sulle previsioni) confermano che il sistema sanitario italiano, a confronto con quelli dei maggiori Paesi europei, resta tra i (relativamente) meno costosi, pur garantendo, nel complesso, l’erogazione di buoni servizi. Deve essere attenzionata, peraltro, la tendenza ad un maggior ricorso a prestazioni svolte da privati, integralmente a carico dei cittadini.
• Altro profilo positivo è dato dal permanere dell’andamento in diminuzione del deficit, ora ridotto a circa un miliardo di euro e con buone prospettive di rientro.
• Prosegue anche la riduzione del debito verso i fornitori, ridottosi di circa il 40% tra il 2012 e il 2016, anche se la massa resta ancor importante, con oltre 20 miliardi di euro, sia pure al lordo della quota fisiologica di passività a fine esercizio. Coerente con questo andamento, a livello di comparto complessivo e al netto di specifiche situazioni, è la diminuzione dei crediti delle aziende sanitarie verso la Regione, indice di un più corretto e tempestivo trasferimento delle risorse agli enti che si trovano, quindi, a poter meglio gestire i pagamenti ai fornitori.
• Nell’arco temporale osservato si registra una crescita delle disponibilità liquide presso gli enti sanitari. Questo fenomeno è ambivalente: per un verso segnala che i vari interventi hanno consentito un miglioramento dei flussi di entrata degli enti sanitari; per contro evidenzia una certa vischiosità all’interno delle procedure di pagamento, considerato che ancora è rilevante il debito e che ancora si rilevano pagamenti per interessi passivi per anticipazioni di cassa e moratori.
• Particolare attenzione va posta al problema degli investimenti. La politica di contenimento della spesa pubblica in generale ha compresso pesantemente l’ambito degli investimenti, ed anche il settore sanitario ne ha risentito. Ciò non contribuisce al rilancio dell’economia e incide qualitativamente sul livello dei servizi erogati.
Si riscontra una riduzione dell’attivo immobilizzato in conseguenza del fatto che gli investimenti effettuati non sono sufficienti a coprire l’obsolescenza che si determina con il passare del tempo e che viene calcolata attraverso il procedimento contabile dell’ammortamento. Gli investimenti totali, pur evidenziando un incremento, non risultano sufficienti a compensare il deprezzamento determinato dall’ammortamento.
INTERVENTI POSSIBILI PER IL RECUPERO DI EFFICIENZA DEL SISTEMA
In primo luogo si richiama il più volte segnalato ritardo nella ripartizione del fondo sanitario nazionale. Se uno dei pilastri della corretta e sana gestione finanziaria è dato da una tempestiva programmazione, di fatto tale principio è regolarmente frustrato dalla mancata individuazione in tempi adeguati delle risorse disponibili per i servizi sanitari regionali. La delibera CIPE di assegnazione definitiva delle quote – che interviene a valle delle consultazioni tra Stato e Regioni/Province autonome – viene costantemente adottata ad esercizio successivo inoltrato: al momento della chiusura dell’istruttoria della presente relazione ancora non è intervenuto il provvedimento relativo al 2017. Questa situazione compromette un’efficiente gestione delle risorse e ne rende anche opaca la rappresentazione contabile. Si procede, infatti, con acconti periodici e regolazioni che avvengono ogni due/tre anni, con tutte le difficoltà del caso nella ricostruzione dei conti e nella lettura degli stessi da parte di chi è chiamato ad effettuare le dovute verifiche, anche ai fini delle dovute informative al Parlamento.
LA SPESA SANITARIA NELLO SCENARIO GENERALE DI FINANZA PUBBLICA
I dati di contabilità nazionale presentati dal governo con la Nota di Aggiornamento al Def 2017 mostrano che il Servizio sanitario nazionale, negli ultimi anni, non ha contribuito a far lievitare la spesa pubblica: rispetto al 2013, nel triennio 2014/2016 la spesa primaria corrente incrementa di circa 21 miliardi, di cui 3 miliardi attribuibili alla spesa sanitaria, 17 miliardi alla spesa pensionistica e alle altre prestazioni sociali in denaro. Rispetto al 20127, invece, nel quadriennio 2013/2016 le uscite per il SSN incrementano complessivamente di 2 miliardi, quelle per le prestazioni sociali in denaro di circa 26 miliardi, di cui 11 miliardi per il pagamento delle pensioni, 3 miliardi per le indennità di disoccupazione e, tra le prestazioni assistenziali in denaro, quelle relative alla voce “Altri assegni e sussidi” di 11 miliardi. La spesa sanitaria, nel triennio 2014/2016, cresce (+0,9%) meno della restante spesa corrente primaria (+1,0%), mentre spesa pensionistica e altre prestazioni sociali in denaro aumentano ad un tasso medio circa doppio (+1,8%). La crisi economica iniziata nel 2008/2009, quindi, ha rimodellato il peso delle componenti di spesa del bilancio pubblico, stabilizzando quella relativa al SSN al 6,7% del Pil nel 2016, e incrementando, anche in conseguenza degli effetti sociali della recessione, la spesa pensionistica e per le altre erogazioni in denaro alle famiglie nell’ambito dei sistemi di sicurezza e assistenza sociale (20,1% del Pil nel 2016). In particolare, nel periodo 2012-2016, la spesa corrente primaria incrementa da 671 a 705 miliardi, ma le uscite destinate alla produzione di servizi pubblici, ossia i “consumi finali della pubblica amministrazione”, di cui le spese per il Servizio sanitario nazionale rappresentano il 35,5% dell’aggregato, si stabilizzano a 315 miliardi, riducendosi di circa 13 miliardi rispetto ai 328 miliardi del 2010, mentre aumentano di 26 miliardi, da 311 (anno 2012) a 337 miliardi (anno 2016), i trasferimenti monetari dal bilancio pubblico per le prestazioni sociali in denaro di natura previdenziale e assistenziale.
I dati di contabilità nazionale registrano andamenti particolarmente penalizzanti anche per gli investimenti fissi lordi degli enti del SSN: in crescita costante dal 1999 al 2009, a partire dal 2010 si riducono annualmente e, nel 2016, risultano inferiori di circa il 51,4% a quelli del 2009 (-2,1 miliardi in valore assoluto), segnando una variazione dell’incidenza sul Pil in calo dallo 0,27% nel 2009 allo 0,12% nel 2016. Le analisi svolte sui dati di stato patrimoniale degli enti dei servizi sanitari regionali e sui flussi di cassa rilevati dal SIOPE confermano questa linea di tendenza. Sempre nel 2016, la spesa pubblica italiana pro capite in servizi alla collettività (5.202 euro) risulta inferiore di circa il 30% a quella di Francia (7.859 euro) e Germania (7.432 euro), con un rapporto spesa/Pil pro capite pari al 18,8% in Italia, al 23,5% in Francia e al 19,4% in Germania. L’Italia, quindi, con una pressione fiscale pari, nel 2015, al 43,5% del Pil, superiore alla Germania (40,0%) ma inferiore alla Francia (47,9%), destina una quota relativamente minore di risorse fiscali alla produzione di servizi pubblici per la collettività.
Quanto di questa riduzione di spesa si sia tradotto in un efficientamento della stessa e quanto si sia invece riflesso in una diminuzione netta di servizi offerti ai cittadini è di difficile quantificazione a partire dai dati contabili, poiché il valore dei servizi prodotti dalla pubblica amministrazione che contribuiscono alla formazione del Pil, non essendo prevalentemente destinati alla vendita, è dato, in contabilità nazionale, dalla somma dei costi sostenuti per produrli.
Le politiche di consolidamento della spesa sanitaria, avvenute con successo nel corso degli anni successivi alla recessione del 2009, prevedono un’ulteriore riduzione dell’incidenza del settore sul Pil, poiché lo scenario previsionale esposto nella Nota di Aggiornamento del Def 2017 per gli anni 2018/2020, stimando una crescita della spesa annua del SSN di circa l’1,3%, inferiore quindi a quella del Pil in valore nominale (circa 3% annuo), ne ipotizza una riduzione, entro il 2020, fino al 6,3% del Pil. Tale quadro tendenziale, delineando una sostanziale invarianza della spesa in termini reali, sembrerebbe garantire risorse sufficienti per la gestione ordinaria del SSN, ma non anche per la programmazione di politiche di maggiore sviluppo e investimento. I dati contabilità nazionale sulla crescita nominale della spesa sanitaria e del Pil nell’arco temporale che va dal 2000 al 2016 evidenziano come la crisi del 2009 abbia determinato una netta inversione di tendenza: se negli anni 2001/2008 la variazione percentuale media della spesa SSN è circa doppia rispetto a quella del Pil (6,2% contro 3,5%), nel successivo periodo 2009/2016 i tassi sono sostanzialmente allineati (0,4% la spesa sanitaria e 0,3% il Pil); se si esclude l’anno cruciale della crisi, il 2009, in cui il Pil nominale diminuisce del 3,7%, la variazione media della spesa sanitaria negli anni 2010/2016 è negativa (-0,2%), mentre la variazione nominale del Pil è di segno positivo (0,9%).
In termini reali, la spesa pro capite sanitaria pubblica cresce del 15,8% nel periodo 2003/2010 (da 1.641 a 1.901 euro), per poi ridursi dell’8,8% negli anni 2010/2016 (da 1.901 a 1.734 euro).
Confrontando, infine, le variazioni medie della spesa sanitaria pro capite totale (pubblica e privata) in termini reali nei principali paesi europei negli anni 2009/2016, solo l’Italia, insieme a Grecia e Portogallo, riduce la spesa per l’assistenza sanitaria, mentre tutti gli altri paesi considerati l’hanno incrementata.
La spesa nominale pro capite negli ultimi otto anni si riduce costantemente e, malgrado l’incremento registrato nel biennio 2015/2016 rispetto all’anno precedente, essa è stata, nel 2016, di 1.857 euro, inferiore quindi al livello raggiunto nel 2009; confrontando, inoltre, i dati sulla spesa sanitaria (pro capite) e il prodotto pro capite a prezzi correnti dell’anno 2008 (l’anno precedente alla recessione economica del 2009) con il 2016, l’incidenza della spesa pubblica per servizi sanitari scende dal 6,8% al 6,7% del Pil.
Analizzando l’andamento dei conti sanitari nel periodo 2009/2016, determinante nel contenimento della spesa appare la riduzione delle uscite per i redditi da lavoro dipendente (-8,6% nel periodo considerato), dovuta al blocco delle procedure contrattuali e del turn over nelle Regioni in Piano di rientro, e della spesa per la farmaceutica convenzionata (-32%), mentre i consumi intermedi del SSN, ossia i costi per le prestazioni sanitarie direttamente prodotte dagli erogatori pubblici, incrementano complessivamente del 23%: tale dinamica crescente sconta, specie negli ultimi anni, il sempre più diffuso utilizzo dei farmaci innovativi in ambito ospedaliero, il cui prezzo unitario è relativamente più elevato di quello dei farmaci tradizionali.
LA QUALITÀ E L’EFFICACIA DELLE PRESTAZIONI DEL SSN
Il SSN, pur con la relativa scarsità di risorse che lo contraddistingue rispetto ad altri sistemi sanitari dell’area euro, ottiene ottimi risultati in termini di efficacia e qualità dei servizi erogati.
La relativa scarsità delle risorse è evidente confrontando la spesa sanitaria pubblica italiana con quella di Francia e Germania, paesi europei più simili al nostro per struttura demografica e consistenza dell’economia: nel 2016, la spesa italiana in termini di Pil è stata inferiore di due punti percentuali alla spesa francese, e di 3 punti percentuali a quella tedesca; sempre nel 2016, L’Italia ha speso per l’assistenza sanitaria pubblica 1.849 euro pro capite, ossia il 36% in meno della Francia (2.886 euro), e il 49% in meno della Germania (3.635 euro).
Malgrado ciò, l’Ocse pone le performance del sistema sanitario pubblico italiano tra le migliori al mondo, pur risultando inferiori alla media Ocse sia le risorse finanziarie impiegate (vista la minore spesa pubblica in percentuale al Pil) sia, ad esempio, il numero di infermieri e di posti letto pro capite.
Riguardo ad uno dei principali indicatori utilizzati dall’Ocse per misurare l’impatto delle attività del SSN sullo stato di salute della popolazione, l’aspettativa di vita alla nascita, l’Italia consegue risultati migliori della media dell’Unione europea, con una aspettativa di vita alla nascita di 82,8 anni (80,6 per gli uomini, 85 per le donne), a fronte di una media dei paesi dell’area euro pari a 81,7 (79 per gli uomini, 84 per le donne). Anche la speranza di vita a 65 anni (18,9 anni per gli uomini, 22,2 per le donne) è, per entrambi i generi, superiore al valore medio dei paesi dell’Unione europea.
Positivo anche il risultato relativo al tasso standardizzato di mortalità per malattie croniche al di sotto dei 65 anni, uno degli indicatori di sviluppo sostenibile adottati dall’Unione europea per misurare gli obiettivi di miglioramento della salute e dell’assistenza sanitaria, dove, a fronte di una media dei 28 paesi dell’Unione pari a 123,3 morti (per malattie croniche) ogni 100.000 abitanti con meno di 65 anni (il dato si riferisce al 2014), l’Italia registra un tasso pari a 88.3, nettamente migliore di quello di Germania (113,7), Francia (105,3), Danimarca (114,4), Paesi Bassi (96,3) e, tra i paesi dell’area mediterranea, di Grecia (120,5) e Spagna (97,4).
Ottimi risultati anche dall’indicatore di mortalità evitabile, che misura qualità ed efficacia delle prestazioni sanitarie erogate, dove, a fronte di una media europea di 97,5 casi per 100.000 abitanti (il dato si riferisce al 2014), l’Italia si colloca su un valore nettamente inferiore, pari a 74,1.
Tuttavia, pur vivendo più a lungo degli altri, viviamo un numero di anni in buona salute relativamente inferiore: a 65 anni, la speranza di vita in buona salute è di 13,7 anni per gli uomini e 14,1 per le donne, mentre la media dell’Unione europea è pari, rispettivamente, a 14,4 e 15,8 anni.
Aspettativa di vita alla nascita che in Italia si presenta diversificata sul Piano territoriale e regionale: nel 2016, a fronte di una media nazionale di 82,8 anni, nel Nord si registra un valore superiore (83,1 anni), così come al Centro (83,0 anni), mentre nel Mezzogiorno il valore scende al di sotto della media (82,1 anni). Analogamente per l’indicatore di speranza di vita in buona salute alla nascita, che, pari ad un valore medio di 58,8 anni, è superiore al Nord (60,5 anni) e nel Centro (58,3 anni) e inferiore nel Mezzogiorno (56,6 anni). I valori più alti si registrano nei territori dove la spesa pro capite sanitaria è anche più alta, come nelle Province di Trento (65,5 anni) e Bolzano (69,3 anni), e nella Regione Trentino-Alto Adige (67,3 anni), viceversa i valori più bassi si registrano nelle Regioni contraddistinte anche da una spesa pubblica pro capite minore, come in Calabria (51,7 anni), Sardegna (54,1 anni) Campania (57,3 anni) e Sicilia (57,8 anni).
Tra le inefficienze e gli sprechi della spesa sanitaria evidenziate dal Report Ocse 2017, vi sono il basso livello di commercializzazione dei farmaci generici (che rappresentano solo l’8% in valore e il 19% in volume del mercato farmaceutico, uno dei peggiori risultati in Europa) e l’eccessivo consumo di antibiotici, mentre viene giudicata carente in diverse aree del paese l’estensione delle reti per l’assistenza territoriale e domiciliare, e migliorabile il coordinamento di tali strutture con le reti ospedaliere.
LA SITUAZIONE DEBITORIA: IN PARTICOLARE I DEBITI VERSO FORNITORI
Il fenomeno dell’indebitamento, se non governato adeguatamente, rappresenta un sintomatico indicatore di rischio per la tenuta degli equilibri di bilancio e, ancor prima, evidenzia già un problema di carenza di liquidità, soprattutto con riferimento alle passività a breve termine. Tale aspetto è strettamente legato sia all’entità delle risorse destinate al settore sanitario, sia al ritardo dei trasferimenti delle risorse agli enti (che si alimentano essenzialmente di trasferimenti regionali). L’insufficiente liquidità, che si è riscontrata nelle analisi svolte in precedenti relazioni al Parlamento, ha comportato il frequente ricorso alle anticipazioni di tesoreria, per fronteggiare temporanee esigenze di liquidità, destinando ingenti risorse per il pagamento dei relativi interessi passivi.
Un profilo rilevante dell’esposizione debitoria, inoltre, è quello dei tempi di pagamento e del contenzioso derivante dall’insolvenza degli enti. Le disposizioni di legge emanate, per dare respiro agli enti in sofferenza finanziaria, sono state oggetto della sentenza della Corte costituzionale n. 186 del 3 luglio 2013, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale delle norme che prevedevano la sospensione delle azioni esecutive per violazione dell’art. 111 Cost. Nel tempo, il fenomeno dei debiti della pubblica amministrazione in generale (e in particolare degli enti del Servizio sanitario) è venuto ad assumere una dimensione rilevante; Governo e Parlamento sono intervenuti con misure specifiche per il rilancio della crescita, per il sostegno dell’economia, dell’occupazione e del reddito. Con il d.l. n. 35/2013 sono stati definiti obiettivi e modalità per realizzare un’accelerazione dei pagamenti dei debiti commerciali delle Amministrazioni pubbliche (compresi gli enti del SSN), maturati alla data del 31 dicembre 2012 (termine poi portato al 31 dicembre 2013 dal d.l. n. 66/2014 e al 31 dicembre 2014 dal d.l. n. 78/2015).
Di particolare interesse, inoltre, sono gli strumenti introdotti per ridurre i ritardi nei pagamenti delle pubbliche amministrazioni: in particolare, l’obbligo della tenuta del registro delle fatture (art. 42, d.l. n. 66/2014), l’indicatore di tempestività dei pagamenti e la fatturazione elettronica. Quest’ultima, infatti, comporterà vantaggi sia in favore della pubblica amministrazione, sia dei suoi fornitori. Tra quelli maggiormente significativi, si evidenzia: l’ottenimento di consistenti risparmi di risorse dovuti, in gran parte, alla dematerializzazione della documentazione cartacea con conseguente dismissione degli archivi fisici; l’elevato grado di trasparenza nei rapporti con i terzi ed una maggiore attenzione sulla loro posizione fiscale che è sottoposta al vaglio automatizzato da parte degli organi competenti, con innegabili ricadute positive anche sulle misure di lotta all’evasione; la possibilità di monitorare in tempo reale l’andamento della spesa pubblica, nonché l’esposizione debitoria, divenendo così al contempo uno strumento di monitoraggio e verifica del rispetto delle disposizioni normative.
Le azioni sopra citate, congiuntamente ad altre azioni messe in atto dagli operatori in ambito regionale e degli enti sanitari, dovrebbero tendere all’allineamento dei tempi di pagamento dei debiti con gli standard europei prescritti dalla direttiva 2011/7/UE e recepiti dal legislatore nazionale con il d.lgs. n. 192/2012, nonché avere effetti sugli stimoli all’economia. Di fatto gli strumenti messi in campo hanno migliorato l’acquisizione di flussi di risorse ma stanno anche evidenziando profili di inefficienza nella loro utilizzazione. Ciò non di meno emergono anche gli effetti positivi delle iniziative intraprese, con consistenze riduzione della massa passiva.