Indirizzo
Corso Matteotti 15,
Cremona, CR 26100
Avv. Maria Ida Tenuta
La recente sentenza del Consiglio di Stato n. 4422 del 2 maggio scorso si è occupata dell’art. 36 del d. lgs. n. 36 del 2023 recante “Norme procedimentali e processuali in tema di accesso” nella parte in cui prevede nell’ambito del giudizio sull’accesso l’ammissibilità di tecniche motivazionali finalizzate a semplificare la fase di stesura della motivazione della sentenza.
Come noto, l’art. 36 cit. stabilisce che l’offerta dell’operatore economico risultato aggiudicatario, i verbali di gara e gli atti, i dati e le informazioni presupposti all’aggiudicazione sono resi disponibili, attraverso la piattaforma di approvvigionamento digitale (disciplinata dall’art. 25 dello stesso D.Lgs. 36/2023), utilizzata dalla stazione appaltante o dall’ente concedente, a tutti i candidati e offerenti non definitivamente esclusi contestualmente alla comunicazione digitale dell’aggiudicazione.
Nella comunicazione dell’aggiudicazione, la stazione appaltante o l’ente concedente dà anche atto delle decisioni assunte sulle eventuali richieste di oscuramento di parti delle offerte.
Tali decisioni sono impugnabili ai sensi dell’articolo 116 del codice del processo amministrativo, con ricorso notificato e depositato entro dieci giorni dalla comunicazione digitale della aggiudicazione.
Il ricorso sull’accesso è fissato d’ufficio in udienza in camera di consiglio nel rispetto di termini pari alla metà di quelli di cui all’articolo 55 del codice del processo amministrativo ed è deciso alla medesima udienza con sentenza in forma semplificata, da pubblicarsi entro cinque giorni dall’udienza di discussione, e la cui motivazione può consistere anche in un mero richiamo delle argomentazioni contenute negli scritti delle parti che il giudice ha inteso accogliere e fare proprie.
Orbene, nel caso di specie l’appellante aveva impugnato la sentenza di primo grado censurando, tra gli altri motivi di gravame, il carattere apparente della motivazione in quanto copiata, per ampi stralci, dalle memorie difensive che la parte appellata aveva prodotto nel corso del primo grado di giudizio.
Il Consiglio di Stato ha rigettato l’appello, ritenendo infondata tale censura.
Secondo il Collegio, con riguardo all’onere motivazionale delle sentenze, il Codice del processo non esige l’originalità delle modalità espositive né vieta l’uso del contenuto di altri scritti bensì nel codice si richiede, piuttosto, che una motivazione esista, sia chiara, comprensibile, coerente (pertanto non solo apparente); in nessun punto del codice risulta richiesta, invece, una motivazione espressa con modalità espositive “inedite”.
A sostegno di tale assunto il Consiglio di Stato richiama la nuova disciplina dell’art. 36 del D.Lgs. 36/2023 che conferma un trend legislativo orientato ad assicurare la massima celerità del giudizio, attraverso il ricorso a strumenti di semplificazione tra cui una motivazione della decisione giudiziale che richiama gli scritti difensivi di una delle parti del giudizio.
In particolare, l’art. 36 comma 7 cit. prevede testualmente che: “Il ricorso … è fissato d’ufficio in udienza in camera di consiglio nel rispetto di termini pari alla metà di quelli di cui all’articolo 55 del codice di cui all’allegato I al decreto legislativo n. 104 del 2010 ed è deciso alla medesima udienza con sentenza in forma semplificata, da pubblicarsi entro cinque giorni dall’udienza di discussione, e la cui motivazione può consistere anche in un mero richiamo delle argomentazioni contenute negli scritti delle parti che il giudice ha inteso accogliere e fare proprie.”
Secondo il Collegio può dunque desumersi il tendenziale consolidarsi di un principio di portata generale secondo cui “… nel bilanciamento tra esigenze di garanzia e quelle del buon andamento del processo, inteso come forma necessaria del giudizio e quindi dell’accertamento giudiziale, le esigenze di celerità e quelle proprie dell’amministrazione c.d. di risultato, giustificano l’ammissibilità di tecniche motivazionali finalizzate a semplificare la fase di stesura della motivazione anche mediante il solo il rinvio alle argomentazioni delle parti che il giudice, condividendole, ritenga di far proprie, assumendole al fine di dare evidenza all’iter logico giuridico che ha condotto alla decisione”.
L’unico limite a tale possibilità è rappresentato dalla necessità che la motivazione, in tal modo predisposta mediante l’ausilio diretto del contributo ricostruttivo ed interpretativo delle parti, non sia una motivazione apparente ma realmente idonea a dar conto delle ragioni giuridiche della decisione.
Il Collegio afferma quindi che: “Non si tratta di acritica ricezione di argomentazioni altrui ma di una mera semplificazione del processo di giustificazione formale della decisione giudiziale assunta, che presuppone, in ogni caso, un attento vaglio critico ed una accurata selezione degli argomenti giuridici da comporre in un discorso argomentativo chiaro, esaustivo, rispetto a tutte le questioni poste e trattate dalle parti e, soprattutto, logico, nella connessione dei fatti accertati e delle ragioni giuridiche addotte”.
La sentenza in commento risulta particolarmente interessante in quanto fornisce una prima lettura delle disposizioni del nuovo codice appalti in tema di accesso confermando che il D.Lgs. 36/2023 sembra essere caratterizzato dal file rouge del raggiungimento del principio di risultato, di cui all’art. 1 del Dlgs. cit., finanche nell’ambito del correlato giudizio sull’accesso.
L’ammissibilità di tecniche motivazionali finalizzate a semplificare la fase di stesura della motivazione della sentenza sono quindi strumentali ad assicurare il risultato in modo celere ed efficiente ossia a far sì che l’affidamento e l’esecuzione del contratto si realizzino con la massima tempestività (oltre che con il migliore rapporto possibile tra qualità e prezzo).
Tale esigenza di celerità, seppur fondamentale, deve tener conto, tuttavia, degli altri interessi in gioco sussistenti nell’ambito del giudizio.
Come ben ricordato dalla sentenza in commento, l’applicazione dell’art. 36, comma 7 cit. comporta quindi che l’onere di motivazione in parola deve essere sempre il frutto del bilanciamento tra le esigenze di garanzia e quelle del buon andamento (e celerità) del processo.
Tale bilanciamento può essere assicurato quindi attraverso una motivazione che nel rinviare alle argomentazioni di una delle due parti – in un’ottica di celerità e semplificazione – risulti comunque idonea a dar conto delle ragioni giuridiche della decisione, al fine di non incorrere nella c.d. “motivazione apparente”.