Indirizzo
Corso Matteotti 15,
Cremona, CR 26100
di Veronica Vecchi * e Niccolò Cusumano *
La spesa pubblica per dispositivi medici nel 2017, secondo i dati Siope, ammontava a circa 4,5 miliardi di euro. Si tratta della seconda voce di costo dopo i farmaci per cui l’Ssn ha speso 8,8 miliardi di euro. La dinamica di queste due voci di costo è, tuttavia, diversa: se la spesa per farmaci tra il 2008 e il 2017 è aumentata in termini reali del 22%, quella per dispositivi è diminuita del 16%. Il dato della spesa è, tuttavia, parziale e sarebbe necessario disporre di informazioni relative ad esempio al prezzo medio unitario, quantità tipologie di beni acquistate, per potere fare delle valutazioni di merito.
Contemporaneamente, a partire dal 2010 si è assistito in Italia (settore pubblico e privato) a una contrazione della spesa per investimenti misurata dalla formazione di capitale fisso al netto delle dismissioni e ammortamenti.
È bene notare che il capitale fisso corrisponde a qualsiasi bene in uso per un periodo più di un anno da parte di un utilizzatore. Nel periodo esaminato gli investimenti pubblici sono calati di circa 2 miliardi di euro. Sebbene tale dato non sia direttamente confrontabile con quello fotografato da Ragioneria Generale dello Stato, anche per quest’ultima la spesa per investimenti è calata di quasi 2 miliardi di euro.
Questo calo generalizzato della spesa corrente e per investimenti può essere in parte dovuto a una diminuzione del costo dei fattori produttivi, grazie a una più attenta disciplina negli acquisti in seguito a vari provvedimenti che hanno visto la rinegoziazione dei contratti, l’introduzione di tetti di spesa, la crescente centralizzazione della committenza, la definizione di prezzi di e capitolati di riferimento.
Bisogna chiedersi, tuttavia, se risparmi di breve termine non si tradurranno in maggiori costi di medio termine dovuti, ad esempio, a un tasso di re-ospedalizzazione più elevato a causa di una minore efficacia dei dispositivi impiantati sui pazienti.
L’efficacia di un acquisto non dipende soltanto dalla qualità intrinseca del bene acquistato, ma anche dalle modalità di acquisto da un punto di vista della gestione del processo d’acquisto. È necessario, infatti, garantire l’approvvigionamento del bene più coerente alle esigenze cliniche specifiche, nel momento giusto e alle giuste condizioni.
In ambito pubblico tale ragionamento è articolabile in tre dimensioni di analisi: organizzativa, procedurale e contrattuale. Da un punto di vista organizzativo il tema attualmente è incentrato sulla centralizzazione della committenza e la loro capacità di rispondere ai fabbisogni clinici e aziendali. Da un punto di vista procedurale si tratta di scegliere e impostare una procedura non soltanto corretta in termini burocratico-formali, ma anche sostanziali, ovvero la procedura più adeguata per la tipologia e le finalità dell’acquisto. In termini contrattuali il tema è domandarsi se esistano forme contrattuali, al di là dei “semplici” contratti di fornitura, che consentano di conseguire maggiori livelli di value for money. Il ricorso ai cosiddetti contratti di service, che si basano sul contratto misto d’appalto, in quanto coniugano la fornitura di un bene (device e/o tecnologie), con altre componenti, tra cui la gestione del magazzino e della logistica interna (nel caso dei device), eventuali lavori edili e manutenzione (nel caso di tecnologie) e messa a disposizione di personale (tecnico, infermieristico, medico) potrebbe offrire soluzioni più coerenti ai fabbisogni, aziendali e clinici.
Il tema della creazione di valore è trasversale a queste dimensioni. Questo concetto si traduce nella triade delle tre E – economicità, efficienza ed efficacia – e deve essere misurato durante il ciclo di vita di un acquisto. Le politiche messere in atto in questi anni hanno presidiato le prime due E, quella dell’economicità, misurata in termini di riduzione dei prezzi di aggiudicazione, e dell’efficienza del processo di approvvigionamento, misurata in termini di riduzione del numero di procedure espletate e tempi di aggiudicazione.
Il prezzo è, tuttavia, solo un elemento del costo di acquisto, così come l’efficienza nella gestione della procedura è una misura parziale che non considera l’effort nella gestione del contratto e l’impatto sui processi produttivi. Per conseguire il value for money, tuttavia, è necessario, specie in sanità, che un acquisto sia innanzitutto efficace e che le tre E siano considerate contemporaneamente.
Metodologie, quali l’Hta, che dovrebbero aiutare le stazioni appaltanti a valutare le tecnologie in termini di costo-efficacia, a oggi non trovano ancora pieno riscontro nei processi di selezione per quanto vi siano tentativi su questa strada. Un’altra soluzione potrebbe essere legare il pagamento della prestazione ai risultati, configurando un sistema di value based health, che è un concetto rispetto a cui esistono definizioni e percezioni ancora abbastanza distoniche, ma la cui applicazione a casi pratici può senz’altro contribuire a definire modelli di riferimento. Tuttavia, l’implementazione di soluzioni value-based, data la loro complessità, almeno inizialmente in una fase di sperimentazione potrebbe essere implementata attraverso modelli di partnership pubblico-privato.
Per favorire la sperimentazione di soluzioni innovative scalabili e conseguire maggiori livelli di efficienza e di efficacia, non necessariamente attraverso soluzioni value based health, un ruolo cruciale può essere rappresentato dal partenariato pubblico privato (PPP), non sempre applicabile, tuttavia, specie quando la componente fornitura rimane dominante rispetto a quella del servizio.
Perché un contratto si qualifichi in senso giuridico come un PPP è importante che il contratto sia una concessione (in sanità, per tecnologie o device, si tratta generalmente di una concessione di servizi).
Per qualificare un contratto come concessione risulta fondamentale l’allocazione dei rischi all’operatore economico (OE). Un appalto è, infatti, un contratto non aleatorio in cui l’appaltatore si impegna a fornire determinate prestazioni all’appaltante in cambio di un corrispettivo. La quantità e il tipo di prestazioni è disciplinato dal contratto, fermo restando l’assunzione del normale rischio di organizzazione d’impresa – rischio d’esecuzione – da parte dell’OE nell’eseguirle.
In una concessione l’OE si aggiudica il diritto a sfruttare economicamente un’opera o un servizio. Il costo del servizio può essere a carico degli utenti o della PA, generalmente in sanità è l’azienda sanitaria (AS) che remunera per il servizio erogato l’OE. Tuttavia, in una concessione, la remunerazione non può garantire una redditività certa in considerazione del fatto che l’OE si deve assumere un rischio cosiddetto operativo.
Il rischio operativo viene definito come “rischio che in condizioni operative normali, non sia garantito il recupero degli investimenti effettuati o dei costi sostenuti per la gestione dei lavori o dei servizi oggetto della concessione. La parte del rischio trasferita al concessionario comporta una reale esposizione alle fluttuazioni del mercato tale per cui ogni potenziale perdita stimata subita dal concessionario non sia puramente nominale o trascurabile”.
Queste oscillazioni, nel settore sanitario, possono essere ricondotte a diversi fattori:
-appropriatezza clinica del contratto rispetto all’evoluzione della domanda e alle soluzioni tecnologiche disponibili;
-modalità di pagamento legata al conseguimento di determinati livelli di efficienza o di efficacia per l’azienda sanitaria, fermo restando la reale capacità dell’OE di incidere su queste due dimensioni, o al perseguimento di obiettivi strategici non diversamente perseguibili.
L’utilizzo, pertanto, dell’istituto della concessione e quindi un contratto di partnership, non dovrebbe essere vissuto come modalità straordinaria ma piuttosto ordinaria quando l’obiettivo che una azienda sanitaria o una Regione vuole perseguire è di tipo strategico e quindi quando il focus si sposta dalla semplice economicità dell’acquisto a un vero value for money. Pertanto, quando gli obiettivi da perseguire sono strategici, un appalto e, a maggior ragione, l’appalto di un bene standard, eventualmente realizzato attraverso una procedura di acquisto centralizzata, non è la soluzione. Infatti, il perseguimento di obiettivi strategici richiede la responsabilizzazione dell’operatore economico verso obiettivi sartorializzati, e per fare questo il contratto deve prevedere dei meccanismi di incentivo o delle sanzioni, che vadano oltre la semplice penale, che molto spesso risulta già quantificata nel prezzo del contratto.
Due sono gli strumenti cardine per comprendere se un contratto di PPP è più adeguato rispetto a un appalto tradizionale.
Il primo è la matrice dei rischi, che consente, sulla base di un elenco dei rischi legati all’esecuzione del contratto, tra cui il rischio di conseguire efficienze gestionali, il rischio di obsolescenza tecnologica, il rischio di disponibilità di una gamma adeguata di device, il rischio di uptime di una macchina, il rischio di riduzione delle liste di attesa o di aumento della produzione, di comprendere chi è il soggetto più adeguato a gestire tali rischi. Quando il livello di rischi assegnabili a un OE è prevalente, allora il contratto non può che essere di concessione.
Il secondo strumento è l’analisi di value for money (VfM). Questa metodologia prevede la valutazione comparativa ex ante tra il costo di implementazione nel caso in cui il progetto sia gestito e implementato dall’azienda sanitaria secondo una modalità tradizionale (il cosiddetto Public Sector Comparator, PSC), e quindi attraverso una serie di contratti e gestioni in house, oppure attraverso un PPP.
Come indicato dall’art. 182 comma 3, l’analisi di convenienza dovrebbe anche tenere in considerazione gli impatti di tipo sociale, e quindi nel caso specifico le performance cliniche derivanti dai due contratti, che tuttavia, possono essere difficili da quantificare, specie oggi, per la carenza di dati. Nel caso il costo totale del modello tradizionale sia maggiore del PPP, allora l’azienda sanitaria potrà scegliere il PPP quale modello contrattuale da implementare. Condizione fondamentale per la validità dell’analisi è costruire dei termini di paragone effettivamente confrontabili, inserendo (nella quantificazione del PSC) i costi relativi a più contratti o a gestione interna del servizio. Nell’analisi di VfM spesso può essere inserita, come addendo al PSC, anche la quantificazione del rischio trasferito all’OE. Tale valutazione può essere spesso difficile per una carenza di dati. Tuttavia, poiché i contratti di PPP sono in grado di ottimizzare in modo significativo i costi, in una logica life cycle, esso può risultare più conveniente o parimenti oneroso rispetto a un contratto tradizionale, con l’aggiunta di una reale assunzione del rischio in capo all’OE.
Da un punto di vista giuridico, un contratto di PPP può essere aggiudicato attraverso una procedura a iniziativa pubblica oppure a iniziativa privata. Quest’ultima, specie oggi, può essere particolarmente utile nel caso di contratti a forte componente innovativa, e quindi più difficili da concepire in seno alle AS, per la carenza di competenze in materia e per una elevata asimmetria informativa. L’art. 183 comma 15 offre la possibilità all’AS di ricevere proposte a iniziativa privata da parte del mercato. Tali proposte a iniziativa privata possono essere stimolate, anche, mediante la pubblicazione di un avviso di sollecitazione del mercato, con l’obiettivo di creare maggior concorrenza.
In un momento storico in cui il cambiamento è auspicato, ma spesso limitato da una governance istituzionale che, se da un lato è stata in grado di disegnare traiettorie evolutive nel sistema sanitario, dall’altro sembra non essere ancora riuscita a innescare processi manageriali adatti a implementare tale cambiamento, è necessario aprire le porte a una sperimentazione bottom-up che generi evidenze tali da guidare concretamente tali sviluppi.
La sperimentazione può partire dai processi di acquisto, che sono la porta primaria per introdurre innovazioni nel sistema.
Tuttavia, in presenza di un quadro regolatorio stratificato, di un mercato complesso, in cui le asimmetrie informative sono notevoli, l’ostacolo da superare è spesso l’incertezza, non tanto nel trovare soluzioni innovative, quanto, piuttosto, nel comprenderne il valore e nell’attuarle. Un contesto istituzionale che non premia l’assunzione di responsabilità – e in una certa misura di rischio, condizione alla base dell’innovazione – e senza il supporto di solide competenze manageriali, porta a replicare l’utilizzo di strumenti e modalità di acquisto standard, considerate come più cautelative da parte di chi le attua. Questo ha portato a preferire l’acquisto di un bene standard in luogo di un bene che potesse generare impatti positivi in termini di efficienza gestionale e impatti clinici o in luogo della realizzazione di gare di service. Oppure, rispetto a queste ultime, la scelta è stata di procedere attraverso modelli molto standardizzati, anche attuati attraverso gare centralizzate uniche in lotti geografici o aziendali, piuttosto che basate su una reale comprensione del fabbisogno aziendale. Peraltro, quando queste gare sono concepite dalle maggiori centrali di committenza, questo può influenzare altri buyer più piccoli, generando comportamenti emulativi acritici.
Spesso si demanda solo ai processi di acquisto l’obiettivo di controllare l’appropriatezza e l’adeguatezza della spesa e quindi, in senso lato, obiettivi di value for money. In realtà, è il compito della programmazione regionale andare a definire quelli che sono i fabbisogni da soddisfare, che a cascata definiscono i costi del sistema sanitario e che dovrebbe dare gli input per ricercare le soluzioni che consentano di massimizzare la funzione del value for money, come combinazione di efficienza, efficacia ed economicità.
Una migliore programmazione delle attività consentirebbe, quindi, non solo una gestione più efficiente ed efficace dei processi di acquisto, ma anche un’interlocuzione qualificata con il mercato e l’individuazione delle soluzioni più adeguate al raggiungimento degli obiettivi della programmazione.
In questo contesto appare, quindi, utile porsi alcune domande.
1. Come è possibile interiorizzare nei processi di acquisto il value for money?
2. Se la risposta alla ricerca di un maggior value for money risiede in contratti di service, qual è la modalità di acquisto più appropriata? Una gara specifica, disegnata sulla base delle peculiarità della singola azienda, oppure una gara centralizzata?
3. E quindi, a cascata, quale deve essere il ruolo delle centrali di committenza/soggetti aggregatori nell’ambito di gare complesse di servizio? Deve essere un ruolo di aggregazione della domanda e di esecutore della gara o di hub di competenza?
La centralizzazione degli acquisti si è dimostrata una soluzione adeguata quando le centrali/soggetti aggregatori sono stati in grado di aggregare la domanda in modo coerente rispetto ai fabbisogni delle aziende sanitarie. L’aggregazione della domanda può apparire un processo più facilmente gestibile, nell’interazione tra centrali e aziende, quando l’oggetto di acquisto sono beni o servizi standardizzabili. Mentre, essa può essere di più difficile attuazione quando l’oggetto di acquisto diventa più complesso, come nel caso di un servizio ad alta complessità, che per essere realmente efficiente deve essere disegnato su misura sulle esigenze dell’azienda, per consentire il raggiungimento di obiettivi di value for money.
A parere di chi scrive, uno dei principali risultati conseguiti dalle centrali, oltre a quelli citati sopra e segnatamente di riduzione della variabilità dei prezzi di acquisto, è stato lo sviluppo di competenze sempre più sofisticate. Questo dovrebbe essere un patrimonio importante da cui muovere processi di innovazione, stimolando dunque le centrali ad assumere sempre di più il ruolo di hub di competenze.
* Sda Bocconi School of Management (fonte: Il Sole24Ore Sanità)