Indirizzo
Corso Matteotti 15,
Cremona, CR 26100
Il risarcimento del danno da ritardo, con particolare riferimento all’onere della prova in materia di elemento soggettivo
Cons. St., sez. V, 25 marzo 2016, n. 1239 – Pres. (ff.) Contessa, Est. Lotti
La sussistenza del danno da ritardo non può presumersi iuris tantum, in relazione al mero “superamento” del termine fissato per l’adozione del provvedimento amministrativo favorevole, ma il danneggiato deve, ex art. 2697 c.c., provarne i presupposti sia di carattere oggettivo (sussistenza del danno e del suo ammontare, ingiustizia dello stesso, nesso causale), sia di carattere soggettivo (dolo o colpa del danneggiante).
La prova dell’elemento soggettivo della fattispecie risarcitoria deve considerarsi raggiunta a fronte della dimostrazione di un esito favorevole del procedimento (con conseguimento da parte del privato del bene della vita richiesto) e a fronte di una palese ed oggettiva inosservanza dei termini procedimentali, non giustificata da parte dell’Amministrazione, né in sede procedimentale né in sede giudiziale, con riferimento a difficoltà oggettive di tipo tecnico o organizzativo rispetto al concreto affare trattato.
Con la sentenza in commento la V Sezione del Consiglio di Stato ha ribadito principi consolidati nella giurisprudenza amministrativa in relazione alla riconducibilità della fattispecie del danno da ritardo a quella di cui all’art. 2043 c.c., con conseguente applicazione rigorosa del principio dell’onere della prova in capo al danneggiato, circa la sussistenza di tutti i presupposti oggettivi e soggettivi dell’illecito (si veda ex multisCons. St., sez. V, 13 gennaio 2014, n. 63; sez. IV, 7 marzo 2013, n. 1406; sez. IV, 4 maggio 2011, n. 2675; nonché, più di recente, sez. V, 10 febbraio 2015, n. 675, che ha precisato come nell’azione di responsabilità per danni il principio dispositivo, sancito in generale dall’art. 2697, primo comma, c.c., opera con pienezza e non è temperato dal metodo acquisitivo proprio dell’azione di annullamento).
Si trattava, nel caso in esame, di un procedimento di VIA per l’autorizzazione ad un ampliamento di un impianto di smaltimento e recupero di rifiuti non pericolosi, conclusosi con un ritardo di 154 giorni rispetto al termine indicato dall’art. 20 del Codice dell’ambiente, ritardo calcolato tenuto conto dell’interruzione del procedimento, dovuta alla comunicazione ex art. 10 bis l. 241/1990.
In particolare, la sentenza in commento ha rilevato che, nel caso di specie, dovesse ritenersi raggiunta la prova dell’elemento soggettivo della colpa in capo alla PA procedente, una volta dimostrato l’esito favorevole del procedimento e l’oggettiva inosservanza dei termini del procedimento, senza che l’amministrazione avesse, né in sede procedimentale né giudiziale giustificato tale ritardo con riferimento a difficoltà oggettive di tipo tecnico o organizzativo rispetto al concreto affare trattato.
Quanto alla selezione dei danni risarcibili, la sentenza ha fatto riferimento al mancato guadagno dell’imprenditore, dimostrata in via presuntiva con riferimento alla differenza tra l’utile risultante dal bilancio del 2012 e quello derivante dal trattamento della maggiore quantità di rifiuti, secondo la richiesta autorizzazione.
Occorre subito premettere che la fattispecie di danno da ritardo in esame è quella per tardiva adozione di provvedimento favorevole, con preventivo accertamento della spettanza del bene della vita richiesto. La VIA, infatti, ancorché il relativo procedimento si era tardivamente concluso, era stata favorevole all’interessato, e l’autorizzazione all’ampliamento conseguentemente concessa.
Tale forma di tutela risarcitoria sostanzialmente coincide – come rilevato dalla stessa sentenza – con il risarcimento dell’interesse legittimo pretensivo (cfr. Cons. St., sez. V, 13 gennaio 2014, n. 63).
Da essa va, dunque, distinta la diversa e controversa figura del danno da mero ritardo, con la quale, secondo un’opinione, minoritaria in giurisprudenza, si potrebbero risarcire i danni derivanti dal puro e semplice superamento dei termini di conclusione del procedimento, a prescindere dall’accertamento della spettanza del bene della vita finale (si rinvia sul punto alla rassegna monotematica a cura dell’Ufficio studi: il punto sul danno da ritardo).
La fattispecie del danno da ritardo mero, infatti, muove dal presupposto che il ritardo nella conclusione di un qualunque procedimento è sempre un ‘costo’, dal momento che il fattore tempo costituisce una essenziale variabile nella predisposizione e nell’attuazione di piani finanziari relativi a progetti imprenditoriali, condizionandone la relativa convenienza economica; in questa prospettiva ogni incertezza sui tempi di realizzazione di un investimento si traduce nell’aumento del c.d. “rischio amministrativo”. (Sulla risarcibilità del danno da ritardo mero, le prime pronunce che si sono occupate della questione, per lo più sotto forma diobiter dicta, sono le seguenti: C.g.a., sez. giurisdizionale, 4 novembre 2010 n. 1368; Cons. St., sez. V, 28 febbraio 2011 n. 1271; C.g.a., sez. giur., 24 ottobre 2011, n. 684; v. inoltre più di recente: Cons. St., sez. III, 31 gennaio 2014, n. 468; sez. IV, 4 settembre 2013, n. 4452; sez. V, 21 giugno 2013, n. 3405; Tar Lecce, sez. III , 15 gennaio 2014, n. 112; Tar L’Aquila 19 dicembre 2013, n. 1064;).
Secondo la giurisprudenza prevalente, tuttavia, come si è detto, inquadrandosi la fattispecie nell’ambito del 2043 c.c. come risarcimento dell’interesse legittimo pretensivo, per accedere alla tutela risarcitoria occorre che vi sia una lesione che incida sul bene della vita finale, il quale funge da sostrato materiale dell’interesse legittimo e che non consente di configurare la tutela di interessi c.d. procedimentali puri, di mere aspettative o di ritardi procedimentali (Cons. Stato, sez. V, 29 dicembre 2014, n. 6407; v. inoltre in generale sulla riconducibilità della fattispecie all’art. 2043 c.c.: Cons. St., sez. V, 10 febbraio 2015, n. 675; sez. V, 21 novembre 2014, n. 5757; sez. V, 16 aprile 2014, n. 1860; sez. V, 13 gennaio 2014, n. 63; sez. IV, 28 maggio 2013, n. 2899; sez. IV, 7 marzo 2013, n. 1406; sez. V, 21 giugno 2013, n. 3408).
E’ dunque pregiudiziale, per l’accoglimento della domanda risarcitoria, l’accertamento della spettanza del bene della vita richiesto dall’istante.
Pertanto, solo quando il procedimento sia da concludere con un provvedimento favorevole per il destinatario o se sussistano fondate ragioni per ritenere che l’interessato avrebbe dovuto ottenerlo, il solo ritardo nell’emanazione di un atto è elemento sufficiente per configurare un danno “ingiusto”, con conseguente obbligo di risarcimento. (Cons. St., sez. V, 29 dicembre 2014, n. 6407; sez. V, 13 gennaio 2014, n. 63).
Va, tuttavia, rilevato che in altra isolata occasione, la giurisprudenza ha invece valorizzato l’aspetto della spettanza del bene della vita al fine della prova del nesso di causalità tra il fatto illecito e l’evento dannoso, configurando di contro il danno ingiusto come lesione dell’interesse legittimo al rispetto dei termini procedimentali (Cons. Stato, sez. VI, 14 novembre 2014, n. 5600).
Quanto alla questione dell’onere della prova, la sentenza si pone in linea di continuità con la giurisprudenza amministrativa ampiamente prevalente, secondo la quale spetta al ricorrente fornire in modo rigoroso la prova dell’esistenza di tutti i presupposti del danno da ritardo.
Infatti, se anche può ammettersi il ricorso alle presunzioni semplici ex art. 2729 c.c. per fornire la prova del danno subito e della sua entità, è comunque ineludibile l’obbligo di allegare circostanze di fatto precise, non potendosi, in assenza di ciò, fare ricorso alla valutazione equitativa del danno ex art. 1226 c.c., perché tale norma presuppone l’impossibilità di provare l’ammontare preciso del pre-giudizio subito, né può essere invocata una consulenza tecnica d’ufficio, diretta a supplire al mancato assolvimento dell’onere di allegazione e prova da parte del privato. (il principio è stato per la prima volta affermato da Cons. St., sez. V, 28 febbraio 2011, n. 1271; v. inoltre ex multis più di recente: Cons. St., sez. IV, 22 ottobre 2015, n. 4823; sez. III, 10 aprile 2015, n. 1839; sez. V, 10 febbraio 2015, n. 675; sez. IV, 18 novembre 2014, n. 5663; sez. V, 21 giugno 2013, n. 3405; sez. V, 21 giugno 2013, n. 3407)
Solo in rari casi, infatti, la giurisprudenza ha ammesso il ricorso alla valutazione equitativa del danno (cfr. T.a.r. Latina (Lazio), sez. I, 28 novembre 2012, n. 892; T.a.r. Bari (Puglia), sez. III 4 maggio 2012 n. 923;).
In particolare, per quanto alla prova dell’elemento soggettivo, la giurisprudenza sostiene che essa non possa derivare dal mero superamento del termine di conclusione del procedimento (Cons. St., sez. IV, 12 novembre 2015, n. 5143), dovendosi dimostrare che il difettoso funzionamento dell’apparato pubblico sia riconducibile ad un comportamento gravemente negligente o ad una intenzionale volontà di nuocere, in palese contrasto con i canoni di imparzialità e buon andamento dell’azione amministrativa ovvero ad un colpevole atteggiamento dilatorio addebitale a negligente comportamento dell’apparato amministrativo (Cons. St., sez. IV, 4 settembre 2013, n. 4452; Tar Napoli, sez. III, 3 luglio 2015, n. 3580).
In particolare, si afferma che la colpa dell’amministrazione possa essere riconosciuta solo in situazioni di inescusabilità, in un contesto di circostanze che palesi negligenza e imperizia, e di intenzionalità di agire in violazione delle regole di buona amministrazione (Cons. St., sez. III, 6 maggio 2013, n. 2452 e con riferimento al danno da ritardo Cons. St., sez. V, 17 giugno 2015, n. 3047).
Si segnala, in particolare, Tar Liguria, sez. II, 8 gennaio 2016, n. 4, secondo la quale, la sola violazione del termine massimo di durata del procedimento amministrativo di per sé non dimostra l’imputabilità del ritardo, potendo la particolare complessità della fattispecie o il sopraggiungere di evenienze non imputabili all’amministrazione escludere la sussistenza della colpa.
La sentenza in esame, tuttavia, ha – come si è detto – ritenuto provata la colpa della amministrazione, con una sorta di inversione dell’onere della prova, in quanto essa non aveva giustificato, né in sede procedimentale né giudiziale, le ragioni del ritardo.
In tema, si veda anche Cons. St., sez. IV, 7 aprile 2015, n. 1770, secondo il quale la colpa dell’Amministrazione va esclusa in presenza di non contestate ragioni impeditive o quantomeno scusanti al rilascio del provvedimento richiesto.
Infine, quanto alla tipologia di danni risarcibili, trattandosi di una fattispecie di danno da ritardo previo accertamento della spettanza del bene della vita, essi vanno ricondotti alla perdita subita e al mancato guadagno, in relazione appunto al bene della vita tardivamente conseguito.
Nel caso di specie è stato liquidato unicamente il danno da mancato guadagno.
Per quanto riguarda, invece, la prova del danno emergente, la giurisprudenza ha recentemente rilevato che spetta all’istante dimostrare, tra l’altro, che la mancata adozione del provvedimento ha provocato nel suo patrimonio pregiudizi che non si sarebbero verificati ove l’atto fosse stato tempestivamente emanato. (Cons. St., sez. IV, 12 novembre 2015, n. 5143)
E’ evidente, invece, che tali rigorosi oneri di allegazione non si rinvengano nel caso in cui la pretesa al danno da ritardo nella conclusione del procedimento amministrativo sia formulata in termini di indennizzo da mero ritardo di cui all’art. 2 bis, comma 2, l. n. 241 del 1990, introdotto dall’art. 28, d.l. 21 giugno 2013, n. 69, convertito con modificazioni nella l. 9 agosto 2013, n. 98 ancorché in via sperimentale e circoscritto solo ad alcune tipologie di procedimenti (con estensione del rito speciale sancito dall’art. 117 c.p.a.).
In tali casi, il ristoro è configurabile per il solo decorso del termine, anche in casi di situazioni fortuite, di forza maggiore, errore scusabile e prescinde anche dall’elemento della colpa. (Cons. St., sez. IV, 13 ottobre 2015, n. 4712).