Indirizzo
Corso Matteotti 15,
Cremona, CR 26100
Il deficit della sanità italiana si è molto ridotto in un decennio di difficoltà finanziarie. Ora arriverà una montagna di soldi. Che però andrà spesa pensando al finanziamento del nostro Ssn non solo nell’immediato, ma anche nel futuro.
Tagli reali e virtuali
La diceria che in sanità siano stati tagliati 37 miliardi di euro nell’ultimo decennio continua a circolare ma non è vera (ed è anche sbagliata), perché i tagli dei fondi statali sono stati di 1,2 miliardi e gli aumenti di 14,2 miliardi (figura 1), se per taglio si intende una diminuzione rispetto all’anno prima. Chi ha diffusa la storia considera come “tagli” le riduzioni rispetto a una previsione o a una promessa fatta. Non c’è nulla di nuovo, rispetto alle solite manovre di contenimento della spesa. Ma è un classico esempio della schizofrenia nazionale che, da un lato, si indigna per gli sprechi in sanità – 30 miliardi secondo il presidente della Regione Veneto Luca Zaia – e dall’altro insorge contro gli “attentati al Sistema sanitario nazionale” quando si fanno manovre di contenimento della spesa, dettate dal quadro macroeconomico. Esistono tre tipi di tagli in sanità: quelli virtuali, quelli reali e la diminuzione degli sprechi, che sono risparmi di spesa.
I famosi 37 miliardi sono un esempio lampante di taglio virtuale, ossia di minore finanziamento rispetto a una previsione tendenziale (per esempio nel Documento di economia e finanza) o a un’intesa firmata tra stato e regioni, “salvo modifiche per esigenze di finanza pubblica o di variazioni del quadro macroeconomico”. Si potrà recriminare sul mancato aumento dei fondi, ma i tagli reali sono stati quasi zero. Il calcolo, piuttosto approssimativo, è basato su due documenti: il primo, una diapositiva del ministro della Salute del governo Monti, Renato Balduzzi, per gli anni 2012-2015, per 25 miliardi di euro (2,5 nel 2012; 5,4 nel 2013; 8,3 nel 2014 e 8,4 nel 2015); il secondo, una tabella della Corte dei conti con le previsioni del Def per gli anni 2015-2019 per altri 12 miliardi (2,4 miliardi nel 2015; 2 nel 2016; 4 nel 2017; 3,1 nel 2018 e 0,6 nel 2019). Come si può notare, i “tagli” del 2015 sono contati due volte, per cui il totale dovrebbe essere 28 oppure 34 miliardi. E i “tagli” più pesanti (16,7 miliardi per il 2014-15) sono agganciati a una previsione di crescita del Pil che si è rivelata inferiore, nei fatti, di 87 e 113 miliardi.
Ma a prescindere da queste quisquilie, le manovre di contenimento della spesa (i tagli virtuali) non sono un’invenzione di oggi, esistono fin dai primi anni del Sistema sanitario nazionale. La prima manovra, di 4.075 miliardi di lire, è datata infatti 1982. Nel 1983 fu di 2 mila miliardi, nel 1984 di 4.950 miliardi e così via in quasi tutti gli anni, fino a oggi. Spesso però erano manovre di carta, basate su previsioni di tagli tanto drastici quanto irrealistici, le classiche operazioni da vetrina per il Fondo monetario. Vi fu un solo triennio – tra il 1993-1995, dopo la drammatica uscita della lira dal Sistema monetario europeo – in cui il finanziamento del sistema sanitario fu realmente e drasticamente tagliato (-1 per cento del Pil), passando da 93,3 miliardi di lire nel 1992 a 87,9 nel 1993, a 87,5 nel 1994 e a 92,5 nel 1995.
Personale, posti letto e sprechi
I tagli reali sono stati altri e hanno riguardato il personale del Ssn, i posti letto ospedalieri, il numero di Asl e di “strutture complesse”, che nel gergo burocratico identificano i posti di responsabilità. Nell’insieme hanno fatto risparmiare solo 1 miliardo circa in dieci anni. Dal 2010 al 2019 il Ssn è stato sottoposto, per via del Patto di stabilità, a una serie di norme che bloccavano le assunzioni entro il tetto di spesa del 2004, diminuito dell’1,4 per cento (legge 191/2009). Il numero dei dipendenti del sistema sanitario si è così contratto di circa 45 mila unità tra il 2009 e il 2018, passando da 693 mila a 648,5 mila (link a MEF/Conto annuale/Analisi e commenti/focus 23 del 2019). Più in dettaglio, i medici sono diminuiti di 7 mila unità, gli infermieri e l’altro personale di 34 mila e settecento. All’incirca nello stesso decennio, negli ospedali pubblici sono stati ridotti i posti letto (-39.477) e sono stati cancellati o accorpati i presidi ospedalieri sotto i 60 posti letto (-109). Il calo dei letti, peraltro, era una tendenza già in atto, in Italia come in altri paesi, su cui si sono innestate diverse leggi che hanno abbassato lo standard nazionale da 4,5 a 4 e a 3,7 posti per mille abitanti. Tra il 2007 e il 2017, infatti, i ricoveri erano crollati di 3,9 milioni e le giornate di degenza di 20 milioni. I letti chiusi, di fatto, erano già vuoti o sottoutilizzati, per cui non si sono ottenute significative riduzioni dei costi vivi, salvo per il personale. Sia perché richiesto dai piani di rientro, sia per un trend spontaneo verso maggiori dimensioni di scala, nell’ultimo decennio anche il numero di aziende sanitarie si è ridotto di 66 unità (28 aziende sanitarie locali e 38 aziende ospedaliere in meno), passando da 229 a 163. La soppressione delle direzioni aziendali (direttore generale, sanitario e amministrativo) e del relativo staff ha portato a un risparmio stimabile in 15-20 milioni nel decennio, a cui si possono aggiungere altri 18-20 milioni di euro per la cancellazione di 614 strutture complesse, a seguito dell’emanazione degli standard ministeriali nel 2012.
Vi sono, infine, i tagli di sprechi – o il ricorso a soluzioni più economiche – che hanno comportato i risparmi più significativi, tra 9,6 e 12,1 miliardi in dieci anni. Dal 2001 i farmaci generici possono sostituire quelli a brevetto scaduto a un prezzo inferiore per legge almeno del 20 per cento. Secondo l’Aifa (Azienda italiana del farmaco), nel 2019 rappresentavano il 20 per cento dei farmaci della classe A mentre da uno studio di Assogenerici risulta che tra il 2009-2019 il Sistema sanitario nazionale avrebbe risparmiato 5,1 miliardi di euro per la loro sostituzione (con un ribasso effettivo del 30 per cento circa). Il mercato potenziale potrebbe interessare il restante 47 per cento della classe A (allineandoci ai paesi Ocse), con un ulteriore risparmio di 1,4 miliardi e un beneficio per i pazienti incalcolabile, dato che oggi pagano (volutamente) 1,1 miliardi per la differenza-prezzo dell’originale. Nello stesso decennio si è ridotta di 2,9 miliardi la distribuzione tramite farmacie, a favore della distribuzione “diretta e per conto” (+1,4 miliardi, secondo Aifa), che ha fatto risparmiare al Ssn sui margini di vendita circa 1 miliardo nel decennio.
La centralizzazione regionale degli acquisti è un altro esempio di risparmio. Introdotta dalla legge di stabilità 2016, negli ultimi quattro anni, secondo l’osservatorio Masan della Bocconi, ha espletato gare per 119 miliardi di euro, ottenendo un ribasso medio del 24,6 per cento. Ipotizzando uno sconto maggiore del 3-5 per cento, rispetto a quello delle precedenti gare aziendali, si può calcolare un risparmio tra 3,6 e 6 miliardi nel quadriennio 2016-2019.
In conclusione, i tagli del personale, delle aziende sanitarie e tutte le misure di risparmio hanno reso disponibili al Ssn da 10,7 a 13,1 miliardi in dieci anni, proprio nel periodo in cui gli stanziamenti del Fondo sanitario erano fermi.
Le responsabilità delle regioni
Perché tanti tagli, veri o presunti, alla sanità? Le misure di contenimento della spesa vanno sempre lette nel loro contesto storico, per evitare interpretazioni false o superficiali. Nel 2009, l’anno successivi alla crisi finanziaria mondiale, il Pil italiano era in caduta libera (-5,3 per cento) e sarebbe diminuito di 4,1 punti fino al 2014. Nel novembre 2011 lo spread avrebbe toccato quota 552. La spesa sanitaria, ormai fuori controllo, cresceva al ritmo del 6 per cento annuo e le regioni avevano accumulato debiti per 28,5 miliardi di euro tra il 2000 e il 2006. Urgevano misure di contenimento della spesa e di risanamento dei conti della sanità. Per fortuna, stava maturando l’idea che d’ora in poi ogni regione – e non più lo stato – avrebbe dovuto accollarsi i propri debiti (“chi rompe, paga”, concordavano i governatori). Nel 2007 furono sottoposte ai piani di rientro o commissariate le prime sette regioni, nel 2009 erano diventate dieci, la metà del totale. La stretta sul finanziamento del Ssn da parte dello stato aveva queste precise motivazioni ed era aggravata dalla stagnazione del Pil, che non forniva le risorse necessarie all’espansione. In effetti, tra il 2009-2019, il finanziamento statale è aumentato di un solo miliardo all’anno, da 104 a 114 miliardi (figura 1). Ma chi oggi parla di “sottofinanziamento” della sanità dice solo una mezza verità.
Paradossalmente è stato proprio in questo decennio di difficoltà finanziarie che si è ridotto e poi, dal 2012, azzerato il deficit della sanità: da -3,7 miliardi nel 2009 a soli -57 milioni nel 2019 (figura 1). Da un lato, i tagli e i risparmi hanno raffreddato la spesa, dall’altro, l’inasprimento delle imposte regionali (+4,3 miliardi) e, soprattutto, le coperture di bilancio aggiunte dalle regioni (+17,8 miliardi) hanno pareggiato i conti. L’onere maggiore, ovviamente, è ricaduto sulle regioni sotto piano di rientro. Il grande risanamento della sanità italiana è avvenuto in un periodo di crisi, non di prosperità. Nonostante tutto, il sistema sanitario ha retto, i risultati ottenuti dalle regioni sono addirittura migliorati, come certificato dalla “Griglia di monitoraggio dei Lea” del ministero e dal Programma nazionale esiti, a dimostrazione che tagliare la spesa non peggiora di per sé la qualità dei servizi. I vincoli fiscali, al contrario, possono indurre miglioramenti nell’efficienza, nei costi, nella qualità dei servizi sanitari. Il Servizio sanitario però è entrato in “profonda sofferenza”, come ha attestato l’Indagine del Senato 2018 e la pandemia da Covid-19 ne ha mostrato tutti i lati deboli, dagli ospedali ai servizi territoriali. Un rallentamento della spesa sanitaria era avvenuto in tutti i paesi Ocse, dopo il 2008, ma in Italia è stato molto più brusco e lungo.
Oggi la spesa sanitaria ha trovato il suo plateau e da qui si dovrà partire per le previsioni dei prossimi anni (anche se vi è spazio per ridurre altri sprechi). Servirà, per prima cosa, un recupero delle risorse perse in questi anni (personale, tecnologie) e, in secondo luogo, un sentiero di crescita compatibile con quello del Pil, se dovrà essere sostenibile nel futuro. A legislazione vigente, il tasso reale di crescita potrebbe essere dell’1,2-1,5 per cento annuo (pari a un 2,2-2,5 per cento nominale), considerato che la popolazione diminuisce dello 0,2 per cento all’anno dal 2015, l’effetto invecchiamento pesa per +1,2 per cento e lo 0,2-0,5 per cento può essere destinato al miglioramento quali-quantitativo dei servizi sanitari (farmaci innovativi, riduzione liste d’attesa, e-health e così via). La maggiore incertezza riguarda la crescita del Pil, senza la quale il Ssn finirebbe per essere finanziato ancora in debito. Nuovi programmi, come ad esempio l’assistenza ai non-autosufficienti (long-term care), che nelle stime di alcuni anni fa costava 9-12 miliardi, dovranno essere attentamente valutati prima del varo.
Arriveranno i fondi per la sanità, italiani ed europei, una pioggia di denaro mai vista. Nell’euforia del momento è bene però ricordare alcune semplici verità: 1) i fondi sono a prestito o a debito e vanno restituiti o ripagati, 2) sono temporanei e non potranno sostenere il finanziamento del Ssn nel lungo periodo, 3) un euro di investimento oggi genera una spesa corrente futura, che dovrà essere finanziata. Servirà molta saggezza per usare bene le nuove risorse. Ma una cosa è certa: se vi erano dubbi sulla tenuta e sulla sostenibilità del Ssn, il Covid-19 dovrebbe averli fugati (quasi) tutti, perché è stato il più severo stress test mai affrontato dal nostro paese negli ultimi cinquant’anni.
(Vittorio Mapelli – fonte: la voce info)